Il numero d’oro nelle opere d’arte preistoriche
Scoperta la sezione aurea nel Paleolitico. È possibile? Ammiriamo le loro opere giunte dalla notte dei tempi e ci sentiamo toccati nel profondo. Eppure tra loro e noi ci sono decine di migliaia di anni. Un abisso apparentemente incolmabile. Com’è possibile che le loro opere ci impressionino a tal punto? Cos’hanno in comune le incisioni antidiluviane con il nostro senso dell’arte? La risposta è sbalorditiva. Il canone estetico alla base delle loro opere è lo stesso che seguiamo noi: la sezione aurea.
Proprio così. La sezione aurea, ovvero la proporzione divina. Divina? E che significa? Entriamo per un attimo nella matematica. Niente paura, soltanto con un piede, appena quanto basta per capire che cosa s’intenda con sezione aurea. Ebbene, si tratta del rapporto fra due segmenti disuguali ( a e b) che stanno tra loro come il maggiore (a) sta al segmento intero (a + b).
In parole povere: se a è il segmento maggiore e b quello minore:
b sta ad a, come a sta alla somma di a + b
b : a = a : (a + b)
Il valore numerico che corrisponde a questo rapporto è: 1,6180. Il numero d’oro. Si può dire che una costruzione oppure un’opera d’arte le cui misure si basino su tale rapporto matematico-geometrico, rispecchia la proporzione cosiddetta divina. Di conseguenza si presenta all’occhio umano come del tutto logica, chiara, armoniosa, giusta, perfetta, assolutamente piacevole. Non c’è da meravigliarsi, se pensiamo che la sezione aurea è costantemente parte della nostra vita e noi… siamo parte di lei.
Ricorre nella natura che ci circonda, nella conformazione dei fiori e delle piante, nella spirale delle conchiglie, nelle proporzioni del nostro corpo, nella struttura della doppia elica del nostro DNA, anche nella forma delle galassie. È il punto ideale in cui macrocosmo e microcosmo s’incontrano. Per questo ci è familiare, anche se inconsciamente, ed è per noi la misura di tutte le cose. Un prodigio? Una magia? Sì, un miracolo dell’universo intelligente.
Fin qui tutto bene. Ma il problema è che, secondo le nostre informazioni storico-archeologiche, i popoli antichi che precedettero la cultura greca classica non erano a conoscenza della sezione aurea e quindi non potevano nemmeno applicarla. Per poterla usare, bisogna infatti possedere un’avanzata base matematica e geometrica. Furono i Pitagorici, nel VI secolo a. C., a definire per la prima volta questo canone di perfezione.
Poi, con il declino della cultura greca, la sezione aurea cadde nel dimenticatoio. Fu risvegliata dal suo lungo sonno soltanto all’inizio del XIII secolo ad opera del matematico italiano Leonardo Fibonacci (deducibile dalla sua successione numerica) e poi, nel XVI secolo, si diffuse fra gli intellettuali del Rinascimento grazie al matematico Luca Pacioli e al suo libro “De divina proportione”. E dobbiamo pensare che anche in quest’epoca il segreto del numero d’oro era noto soltanto a pochi esperti. Leonardo da Vinci, genio dal multiforme ingegno, faceva uso della sezione aurea e la rappresentò nel famoso disegno dell’uomo vitruviano, tracciato secondo tale canone.
Un’archeologa sulle tracce della sezione aurea nel Paleolitico
Oggi si discute se gli antichi Egizi che nella IV dinastia (ca. 2620- 2500 a. C.) costruirono una delle sette meraviglie del mondo, vale a dire la grande piramide di Cheope, fossero a conoscenza della sezione aurea. Normalmente la possibilità viene negata a priori. Bisogna aspettare i Pitagorici, si dice, in quell’epoca era ancora troppo presto, non potevano conoscerla. Eppure proprio nella costruzione della piramide di Cheope è evidente la presenza della sezione aurea. Lo ha dimostrato l’astronomo Charles Piazzi Smith, il quale effettuò nel XIX secolo delle misurazioni talmente accurate della grande piramide, che ancora oggi vengono utilizzate da ingegneri e architetti.
Davanti alle misurazioni di Smith, è difficile negare l’evidenza. Questo non basta, però, a fugare i dubbi dell’establishment. Sì, magari la sezione aurea è presente nell’architettura della piramide, ammettono gli esperti, ma si tratta sicuramente di un caso. Di certo è solo una coincidenza, ribadiscono gli scettici. Insomma, si vuole a tutti i costi che gli antichi Egizi non abbiano conosciuto il numero d’oro. E così sia. Spesso nella storia funziona in questo modo: quando non si possono spiegare certe cose, si ricorre alla coincidenza.
Ma ecco che, come se non bastassero gli antichi Egizi e le misurazioni di Piazzi Smith a creare già abbastanza problemi, adesso si fa avanti pure un’archeologa tedesca con la sua teoria ancor più azzardata: Alexandra Güth sostiene che già gli artisti del Paleolitico facevano uso della sezione aurea. Al Centro di Ricerca di Evoluzione Comportamentale Schloss Monrepos, nella cittadina di Neuwied, l’archeologa ha esaminato minuziosamente delle lastre di scisto paleolitiche ornate da incisioni che risalgono a 15.000 anni fa.
Queste diciotto lastre provengono dal sito archeologico tedesco di Gönnersdorf, della regione di Rheinland-Pfalz. Sono decorate con splendide incisioni che rappresentano animali e una miriade di figure femminili riportate sulla pietra con il tratto sicuro di un artista provetto. Alexandra Güth ha sottoposto le lastre ad analisi con scanner tridimensionale e si è trovata dinanzi a un risultato che mai avrebbe immaginato: gli artisti del Paleolitico conoscevano quelle misure canoniche d’estetica che usiamo ancora oggi. Conoscevano il segreto della sezione aurea. Le incisioni si basano su queste proporzioni.
Tale scoperta implica una deduzione logica: le persone che hanno effettuato le incisioni di Gönnersdorf non erano dei principianti e nemmeno degli amatori, bensì scalpellini professionisti, artisti specializzati e particolarmente talentati che operavano in base a una tradizione ben precisa. Si potrebbe dire: in base alle regole di una scuola d’arte del Paleolitico. Con logica semplicità, Alexandra Güth afferma:
“Ciò che noi oggi percepiamo come armonioso, anche a quei tempi veniva considerato tale.”(“Steinzeit Künstler und der goldene Schnitt”, da Focus 11.12.12)
Proprio così. Nessuna differenza. La notizia è subito rimbalzata sul “Journal of Archaeological Science”. Anche perché le figure di Gönnersdorf sono note da tempo proprio per la loro impressionante modernità che sorprende l’osservatore e concorre con le opere di artisti contemporanei. La loro diffusione a livello europeo dimostra che l’informazione alle radici delle figure rappresentate e i canoni alla base della rappresentazione stessa oltrepassano i confini di tempo, nazionalità e cultura semplicemente perché sono universali. Risvegliano la memoria assopita dell’inconscio collettivo.
Il significato razionale delle immagini di Gönnersdorf ancora ci sfugge. Forse si tratta di simboli sacri, forse di figure a carattere informativo o magari semplicemente di oggetti ornamentali. Ma il fatto che gli artisti di Gönnersdorf fossero in grado di usare la sezione aurea affinché le loro opere rispondessero ad una perfetta armonia e provocassero una percezione di bellezza in chi le osservava, è più che impressionante. A infittire l’enigma concorre poi il fatto che le lastre di scisto decorate non siano state scoperte in caverne, bensì nel bel mezzo del centro abitato nel Paleolitico. Una tradizione artistica dell’Età della pietra? Una scuola che già istruiva gli allievi sui canoni universali dell’estetica?
La scoperta di Alexandra Güth apre nuovi universi ai nostri occhi ancora offuscati dall’eco del miope pensiero ottocentesco che vedeva negli uomini del Paleolitico solo dei selvaggi furiosi. Apre nuove possibilità anche riguardo ad altre culture antiche più recenti, come per esempio quella egizia. Può contribuire a spiegare l’enigma irrisolto che aleggia sulla costruzione della grande piramide. Ma soprattutto ci dimostra, una volta di più, che l’intelligenza, l’ingegno e la sensibilità dell’essere umano hanno una storia molto lunga, una preistoria ancor più lunga, e possono realizzare dei miracoli di perfezione e bellezza al di là di ogni confine apparente di spazio e tempo.
VJ