La peste era una piaga ricorrente nell’antica Repubblica di Venezia. Nei secoli passati la città lagunare fu colpita più volte da epidemie di peste, sia minori che di grande portata. Un fantasma temibile, una catastrofe cronica che, a partire dal III secolo a.C., sconvolse il mondo intero. Quando il medico francese Paul-Louis Simond scoprì l’importanza della pulce come agente eziologico e quella del topo come ospite ideale del bacillo e la trasmissione dal ratto all’uomo, scrisse: “Il 2 giugno 1898 provai un’emozione inesprimibile all’idea di essere in procinto di svelare un segreto che aveva angosciato l’umanità sin dall’apparizione della peste nel mondo”.

La lotta contro il morbo

Era stato il batteriologo Alexandro Yersin, nel 1894, ad identificare per primo il bacillo della peste e a dimostrare che la malattia dell’uomo andava di pari passo con quella del topo. Ma le prime descrizioni della malattia in cui sono riconoscibili i sintomi tipici della peste risalgono addirittura alla fine del III a.C. e nel I secolo d.C. Dopodiché terribili pandemie si abbatterono in periodi differenti su diversi Paesi del globo terrestre. Nota è la peste di Giustiniano, che si scatenò nel 541 d.C., forse giunta dall’Etiopia, e colpì in diverse ondate vasti territori a partire dall’Africa settentrionale al bacino del Mediterraneo e sino alle Alpi, dalla Spagna alla Germania.

Poi ci fu la morte nera del 1348 che, diffusasi nell’Asia centrale a Semiriechinsk, devastò l’Europa intera. Infierì per ben quattro anni ed eliminò almeno un quarto della popolazione europea. Ma quello del del 1348 era solo l’inizio, perché da allora il morbo pestifero divenne in Europa una presenza costante che, come un vulcano assopito, eruttava di tanto in tanto in territori diversi. Si acquietava in un luogo ed esplodeva in un altro. E tale situazione durò per ben cinque secoli.

La morte di Tiziano durante la peste del 1576 a Venezia. Alexandre Hesse 1832, Museo del Louvre.

A Venezia il morbo colpì con particolare violenza nel 1348, nel 1575 e poi nel 1630. Un’altra ondata giunse nel 1797. Ma negli intervalli temporali tra queste epidemie di grande portata ci furono epidemie minori. Accenni a tale proposito si possono consultare nelle cronache di Marin Sanudo. La peste del 1510 causò la morte del pittore Giorgio da Castelfranco. Il temuto morbo era di casa. Soltanto nell’Ottocento la morte nera si allontanò dall’Europa per colpire, però, in altri continenti, dall’Asia all’India e al Giappone, sino alle Americhe. In Europa fu definitivamente debellata dopo una breve riapparizione a Parigi, a Marsiglia e ad Amburgo nel 1920.

Il suo passaggio ispirò disperati versi poetici, tenebrose pitture e affreschi spaventosi, in cui scheletri armati di falci danzavano macabri tra la gente ignara, cavalcavano pallidi destrieri forieri di morte e distruzione. Per molto tempo si credette che fosse un castigo di Dio. Ovvio, poiché nelle epoche più lontane mancavano le conoscenze scientifiche in grado di identificare la peste per quello che era: una malattia infettiva batterica provocata dal bacillo Yersinia pestis. E nei secoli in cui l’acqua corrente nelle case era ancora un miraggio, l’igiene lasciava a desiderare. Le pulci erano una piaga ricorrente nei lussuosi letti a baldacchino dei nobili, così come in quelli umili del popolo.

Una livella tra miasmi e pianeti

Dunque la peste non risparmiava nessuno. Era un flagello imparziale, una falce che mieteva vittime ovunque, senza far caso al peso della borsa. Una livella, come avrebbe detto Antonio de Curtis, in arte Totò. E di tutti i mezzi di trasporto, la nave fu di certo quello che permise ed incrementò la diffusione del morbo in Europa, in particolare nelle città marittime come Venezia. La peste del 1348 giunse con le galere provenienti dal Mar Nero.

I medici di allora, che seguivano l’analisi sulle epidemie del medico greco Ippocrate, attribuivano la causa della malattia alle condizioni atmosferiche e climatiche: “le malattie che s’accrescono in inverno si estinguono d’estate, quelle che s’accrescono d’estate si estinguono d’inverno.” dunque il medico deve studiare “le stagioni dell’anno e gli influssi che ognuna di esse può esercitare, i venti caldi e freddi, anzitutto quelli tipici per ciascuna regione. Deve inoltre indagare la qualità delle acque, perché così come esse differiscono nel gusto e nel peso, altrettanto diverse sono le loro proprietà.” Il problema era che i teorici classici ignoravano quasi completamente l’eventualità che la malattia venisse trasmessa da persona a persona.

La Vergine appare alle vittime della peste, dettaglio. Antonio Zanchi, 1666. Scuola di San Rocco, Venezia.

A ciò si aggiunsero altri influssi provenienti da fonti diverse che tendevano a deviare l’attenzione dall’elemento scientifico per concentrarla invece su quello religioso o astrologico. Pur basandosi sulle teorie scientifiche di Ippocrate e Galeno, la cultura araba introdusse la causalità astrologica. Se la Chiesa apportava la spiegazione religiosa della punizione divina, quella di Avicenna suggeriva un’accidentalità dovuta all’influenza delle stelle e dei pianeti. L’astrologo Pietro d’Abano riteneva che all’origine delle pestilenze vi fossero delle eclissi e delle congiunzioni di corpi celesti. Rifacendosi a tale tradizione, i medici che dovettero confrontarsi con la peste del 1348 identificarono lo scoppio dell’epidemia con la qualità nociva dell’aria, la quale sarebbe stata corrotta da periodi di umidità o dalla sporcizia del terreno, oppure ancora dalle fatali congiunzioni dei pianeti.

Finalmente nel 1493 l’anatomista di Legnago Alessandro Benedetti osservò la presenza di un contagio con persone e cose e riconobbe nell’aria non una causa della malattia, bensì un veicolo di essa. Inoltre Benedetti suggerì che il contagio avvenisse attraverso la pelle. Il medico aveva infatti osservato che i malati di scabbia sembravano essere immuni al morbo. Questa fu una svolta importante che invitò i ricercatori ad allontanarsi dalle teorie astrologiche e a seguire nuovamente quelle più scientifiche basate sulla correlazione degli eventi e delle situazioni.

Lentamente si cristallizzò l’idea che la peste si sviluppasse in un luogo e poi si diffondesse in altre città tramite contagio. Infine, grazie al medico e filosofo veronese Girolamo Fracastoro, si aprirono nuovi orizzonti. Lo studioso parlò per primo di particelle viventi (seminaria) che avevano la capacità di riprodurne altre di uguali e potevano attaccarsi agli oggetti infettando così chiunque li toccasse. Allo stesso modo dette particelle potevano diffondersi nell’aria contagiando le persone a distanza. Un’intuizione brillante che un giorno avrebbe portato ad identificare in Fracastoro l’iniziatore della teoria dei germi, ma per secoli continuò ad essere ampiamente fraintesa.

La sanità della Serenissima

Intanto il morbo nero imperversava. E come si difendevano i veneziani da tale calamità? In occasione della grande peste del 1348, Andrea Dandolo scrisse che “la città pareva disabitata sia per l’epidemia, sia perché la maggior parte dei cittadini scappava da Venezia per scampare alla morte.” Tutti fuggivano l’aria corrotta. Si segnavano croci bianche con il gesso sulle porte di case e botteghe degli appestati. Alcune persone, sospettate di aver contratto il morbo, venivano rinchiuse in casa, le porte delle abitazioni sprangate con assi di legno, e non di rado questi infelici morivano di fame e di sete.

I palazzi vuoti erano tanti. Di conseguenza il Consiglio dei Dieci doveva incrementare il servizio della polizia per vigilare le dimore dei nobili che erano rimaste abbandonate. La gente moriva, la popolazione diminuiva a vista d’occhio. Ma questo sviluppo era compensato dall’afflusso di altre persone alla città. I contadini affamati migrarono dalla terraferma in seguito alla grave carestia del 1347. Chiedevano elemosine davanti alle chiese e ai conventi. Una situazione che si ripeteva di continuo, perché quasi ogni pestilenza era accompagnata da un periodo di carestia. Dopodiché i disgraziati morivano lungo le vie, abbandonati a sé stessi.

Lazzaretto Vecchio, Venezia. Antonio Visentini 1688 – 1728.

Dunque nell’aprile del 1384 si decise che le piccole isole di San Leonardo Fossalama e San Marco Boccalama venissero adibite a fosse comuni per seppellire i corpi dei mendicanti senza dimora. E si incaricarono dei preti per il servizio funebre, degli uomini per scavare le fosse e seppellire i morti, dei raccoglitori di cadaveri, i cosiddetti pizzegamorti, e dei barcaioli per il trasporto dei morti appestati alle isole. Invece i residenti della città venivano inizialmente sepolti nei tradizionali cimiteri di parrocchie e conventi ad una profondità minima di cinque piedi. Ben presto le due isole raggiunsero il limite di capienza e si dovettero seppellire i morti anche a Sant’Erasmo e a San Martino di Strada.

Nel 1485 si istituirono a Venezia i Provveditori alla Sanità, una magistratura che si occupava della pulizia della città, dei generi alimentari introdotti, degli alberghi, dei cimiteri, dei lazzaretti, delle prostitute e degli ospizi, così come dell’ingresso delle navi e delle merci e della produzione di medicinali. Già una sessantina di anni prima, nel 1423, era stato istituito il primo lazzaretto di Venezia sull’isola di Santa Maria di Nazareth. Un provvedimento importante per allontanare e isolare le persone infette in uno spazio stabilito.

Un secondo lazzaretto fu istituito nel 1468 come luogo di quarantena, in cui si attendeva che il paziente superasse la malattia oppure che, se latente, la malattia si manifestasse. Qui si deponeva anche tutta la merce delle navi ritenuta pericolosa, gli equipaggi che potevano essere infetti. Il lazzaretto nuovo fu costruito su un’isola situata di fronte a quella di Sant’Erasmo, in uno spazio detto “Vigna murata”.

Maschera protettiva per medico della peste e utensili per la disinfezione delle lettere scoperti sull’isola di Poveglia, Laguna di Venezia, nel 1889.

Questi lazzaretti erano delimitati, infatti, da un recinto murato che racchiudeva un luogo ripartito in diversi spazi, con un’unica entrata sotto il controllo di guardiani armati, mentre l’isola tutta era amministrata da un priore. Vi erano magazzini per il riparo delle merci suddivise secondo i generi e altri alloggi per le persone malate o potenzialmente malate (i cosiddetti tesoni). Vi era anche una chiesa, qualche pozzo o una fontana, e poi, sull’isola del lazzaretto vecchio di Santa Maria di Nazareth, si apriva la terribile fossa comune, in cui venivano gettati i cadaveri degli appestati coperti di calce viva, affinché non continuassero ad ammorbare l’aria.

In tutto questo quadro di disperate credenze, provvedimenti arditi e sperimentazione, si può comunque sottolineare che l’organizzazione sanitaria della Serenissima e i lazzaretti veneziani furono ampiamente lodati dagli stranieri di passaggio per la loro efficienza in un’Europa che ancora muoveva i primi passi in materia di prevenzione e lotta contro le epidemie pestifere.

Un particolare curioso a margine: Venezia inventò il primo metodo di disinfezione delle lettere. Non appena veniva annunciata un’epidemia, si raccoglieva la posta di mare e di terra, quindi le lettere erano sottoposte a fumigazioni che dovevano liberarle dai miasmi pestiferi. Dapprima si purificavano le buste chiuse, poi le lettere venivano aperte e “disinfettate” pagina per pagina con erbe aromatiche, e quindi richiuse, sigillate e inviate al destinatario.

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