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Ci sono tornata. La tentazione era troppo forte. La grotta di Chauvet attira gli appassionati come la luce le falene. È perfetta e al contempo misteriosa. È bella e impossibile, perché lo stile delle pitture, dei disegni e delle incisioni parietali si presenta incredibilmente moderno, tanto attuale da aver fatto pensare dapprima agli studiosi che si trattasse di un’evoluzione artistica più “recente”. Si collocarono le opere di Chauvet nel Magdaleniano (ca. 18.000- 11.000 B.P.) ipotizzando uno sviluppo seguito all’arte della grotta di Lascaux. Oggi, grazie alle tante datazioni estremamente accurate, sappiamo che i maestri dell’Età della Pietra hanno operato nella grotta 36.000 anni or sono. Davvero nella notte dei tempi.

La grotta meglio datata al mondo

E così la scoperta di Chauvet ha cambiato il concetto dell’evoluzione artistica. L’idea che quest’ultima abbia seguito un percorso cronologicamente lineare è ora sfatata. I risultati delle tante analisi effettuate all’interno della grotta hanno contraddetto il concetto di sviluppo lineare dell’arte in modo evidente e inderogabile. Infatti non soltanto le raffigurazioni di Chauvet si presentano stilisticamente e tecnicamente superiori a tante altre eseguite decine di migliaia di anni dopo, non è solo questo il punto. A ciò si aggiunge il fatto che gli artisti di Chauvet hanno adottato tecniche e metodi sconosciuti anche ai pittori del Medioevo e “riscoperti” soltanto molto più tardi dagli artisti del Rinascimento. Lo dice la scienza.

La scoperta di Chauvet è stata quindi una rivoluzione e ci invita ad abbandonare i vecchi schemi mentali e ad aprirci a nuove realtà, a concezioni diverse. L’esistenza di Chauvet ha avuto un impatto decisivo sul nostro modo di interpretare il passato. Tuttavia, come sempre accade, alcuni scettici (altresì una sparuta minoranza) continuano ad opporsi all’evidenza e le discussioni sulle datazioni continuano ancora oggi, nonostante Chauvet sia attualmente la grotta meglio datata al mondo.

La grotta di Chauvet è situata nel Midi della Francia, dipartimento Ardèche, presso la pittoresca località di Vallon-Pont-d’Arc. È stata scoperta nel dicembre del 1994 dai tre speleologi Jean Marie Chauvet, Éliette Brunel Deschamps e Christian Hillaire. Oggi la grotta originale è chiusa ai visitatori, una misura di sicurezza assolutamente necessaria per proteggere le opere dai batteri che possono causare la proliferazione di alghe e funghi sulle pitture, le incisioni e i disegni e portare al deterioramento e alla sparizione dell’importante patrimonio artistico. Dopo l’esperienza negativa della grotta di Lascaux, che fu per decenni aperta al pubblico e seriamente danneggiata, si è pensato bene di tutelare la grotta di Chauvet fin dall’inizio.

Tuttavia è possibile visitare un facsimile della caverna (le sale sono più piccole di quelle originali in rapporto 1:3, mentre le dimensioni delle pitture, dei disegni e delle incisioni corrispondono agli originali), la “Caverne du Pont d’Arc”, per farsi un’idea dell’eccezionale bellezza di questo patrimonio dell’umanità (attenzione: si deve però prenotare la visita per tempo, è ammesso soltanto un determinato numero di persone al giorno).

Come scritto più sopra, la grotta è stata sottoposta a numerosissime datazioni, ben 350, sia radiometriche che al C14, dirette e indirette, eseguite sulle rocce, sulle stalattiti, sulle pareti, sui focolari e anche sui pigmenti di colore, sulle ossa di animali recuperate nella caverna, sulle tracce lasciate dalla fuliggine delle fiaccole dell’Età della Pietra. Soprattutto va sottolineato che sono state effettuate numerose datazioni dirette su campioni prelevati da alcuni disegni eseguiti a carbone e dallo strato di calcite che ricopriva altre opere.

Ora sappiamo che la caverna dell’Ardéche è stata frequentata in più fasi e durante un lasso di tempo enorme, a partire da 36.000 sino a circa 29.000 anni or sono. Le opere artistiche risalgono quindi all’Aurignaziano (40.000-30.000) e le ultime tracce dei visitatori al Gravettiano (30.000 –22.000). La certezza che nessuno, sino al 1994, sia potuto penetrare nella caverna, è dato dal fatto che un crollo dei massi avvenuto sull’entrata preistorica ostacolò l’accesso a partire da 29.500 anni fa. Il crollo degli ultimi massi avvenuto circa 7000 anni dopo sigillò definitivamente l’entrata. Ciò significa che la tradizione culturale (e forse cultuale?) legata a tale luogo è perdurata per millenni. Oggi i pochissimi studiosi autorizzati ad entrare nella caverna per motivi di preservazione e ricerca, utilizzano l’accesso che fu utilizzato dai tre speleologi scopritori, mentre quello preistorico originario è ancora ostruito dai massi litici.

Dunque la perfezione era all’inizio? Gli artisti di Chauvet sembrano aver conosciuto la tecnica di una prospettiva ante litteram, il metodo sintetico di rappresentare gli animali in movimento, la tecnica dello sfumato per conferire agli animali raffigurati la corposità di un altorilievo, la rappresentazione tridimensionale ottenuta avvalendosi di profondità e contorni per mostrare gli animali come se uscissero dalle fessure delle pareti rocciose per poi avventurarsi nel cuore della grotta. A tutto ciò si aggiunge la mano sicura e geniale degli artisti che testimonia una padronanza indiscutibile di linee e forme, la conoscenza intrinseca del comportamento animale propria degli antichi cacciatori, la bellezza della spontaneità delle immagini e della forza espressiva racchiusa in pochi tratti.

Rinoceronti, leoni e mammut nella fauna di Chauvet

Chauvet è un miracolo. Non è facile descriverne lo splendore. C’è solo una possibilità: recarsi sul posto e ammirare di persona il bestiario incredibile che emerge dalle ombre e dagli anfratti e che un tempo sembrava muoversi alla luce tremolante delle torce per perdersi poi, irraggiungibile, nell’universo del mito. Nelle prime sale rocciose domina il colore rosso dell’ocra. Poco distante dall’entrata si stagliano i profili di orsi delle caverne: fantasmi meravigliosi, perfetti, essenziali. Orsi che non hanno occhi, come spiriti, anime della terra.

Una pioggia di cerchi rossi esplode su una parete rocciosa: i palmi delle mani di chi passò in quella caverna 36.000 anni fa e, dopo aver immerso le mani nel colore rosso, impresse il suo marchio sulla pietra. Forse un gesto di culto. Gli esperti hanno individuato mani di donna, uomo, bambino. Forse tra esse ci sono anche quelle degli artisti. In una galleria della caverna un dito sconosciuto ha tracciato nell’argilla morbida uno splendido cavallo, un po’ più in là un altro artista ha usato la medesima tecnica per immortalare una civetta.

Un mammut emerge dall’ombra, una coppia di leoni cammina fianco a fianco. In un angolo si vede un piccolo rinoceronte solitario, poi altri orsi di diversi colori. Segni. Dappertutto. Tanti simboli ricorrenti e misteriosi il cui significato a noi estraneo rimane racchiuso nel silenzio della grotta. Uno ricorda una farfalla, un altro un gigantesco insetto. Nelle sale più interne è la volta del colore nero, ricavato dalla polvere di manganese e, per i disegni, dal carbone. Se nel passato le sale dipinte in rosso erano parzialmente illuminate dalla luce del giorno, quelle in nero sono appartenute invece da sempre al regno della notte.

Una parete cattura l’attenzione dell’osservatore, incatena il suo sguardo a quattro splendidi cavalli. Verso il fondo della grotta si susseguono i grandi pannelli, quelli davvero sublimi che hanno cambiato il nostro concetto di evoluzione artistica. Si vedono un branco di leoni, una mandria di rinoceronti, dei mammut, bisonti, ancora cavalli. Gli animali raffigurati in maggior numero a Chauvet sono i leoni, i rinoceronti, i mammut e gli orsi delle caverne. Animali pericolosi che appariranno di rado nelle raffigurazioni di epoca più tarda e sembrano invece dominare l’universo dell’Aurignaziano. Sono gli stessi protagonisti dell’arte mobiliare tedesca, quella del Giura svevo, che ha portato alla creazione della Venere di Hohle Fels e dello splendido Uomo-Leone di Hohlenstein, due capolavori di ben 40.000 anni fa.

Dunque anche le specie di animali rappresentati parlano per un’epoca estremamente remota, in barba alla fantastica modernità dello stile adottato dagli artisti. Perché “artisti”? Perché gli studiosi pensano che delle mani diverse abbiano operato nella grotta di Chauvet. Sconosciuti che dovevano fruire di un’esperienza profonda in materia, di un esercizio pluriennale probabilmente effettuato su materiale deperibile, come pelli oppure legno. Le altre opere di questi maestri sono andate perdute, le raffigurazioni parietali di Chauvet sono rimaste a testimoniare la loro passata esistenza.

 Il regno dell’orso delle caverne: un culto del Paleolitico?

E poi Chauvet è il regno dell’orso delle caverne. Un gigante erbivoro di quasi due metri al garrese che non appare soltanto sulle raffigurazioni parietali. La grotta era la sua tana. Fino a 30.000 anni or sono questo impressionante visitatore ibernava tra le rocce di Chauvet, lo testimoniano gli avvallamenti lasciati dal suo corpo nel terreno originale, i graffi prodotti dalle sue unghie lungo le pareti, i numerosi resti fossili all’interno della grotta. Ma c’è di più. Un altro mistero si aggiunge alle tante domande senza risposta. In una delle sale più interne, una di quelle da sempre preda della notte, gli speleologi hanno scoperto un grosso masso di pietra di forma triangolare su cui poggiava un teschio di orso delle caverne.

Il masso era precipitato dal soffitto della caverna più di 30.000 anni fa e i frequentatori della grotta, gli uomini dell’Aurignaziano, vi avevano poggiato sopra il cranio di orso, seguendo la geometria della pietra, sistemandolo proprio sul vertice del triangolo litico. Come fosse un altare. Tutto intorno al masso hanno poi disposto altri crani ed ossa di orsi delle caverne. Una scena bizzarra, quasi irreale, che ha portato molti studiosi ad ipotizzare una sorta di culto dell’orso nel Paleolitico.

L’archeologo francese Jean Clottes, esperto di Chauvet, parla di sciamanismo. Identifica nelle grotte francesi dei luoghi di culto in cui le genti del Paleolitico si recavano per ristabilire quel legame invisibile con l’altro mondo, forse con gli spiriti degli animali, con le forze della natura. L’antropologo Alain Testart ipotizza che lo spazio delle caverne abbia costituito un microcosmo mitico, la rappresentazione dello stato del mondo alle origini. Non è da escludersi che anche una strana raffigurazione situata nella sala più profonda della grotta di Chauvet faccia parte di questo universo magico: su una roccia triangolare che pende dal soffitto l’artista ha dipinto in colore nero un triangolo pubico, una vulva, e le estremità inferiori di questo stralcio di donna si fondono con l’immagine di un bisonte.

Entrata attualmente utilizzata dagli studiosi per accedere all’interno della grotta di Chauvet. Foto: Thilo Parg CC BY SA 4.0

La donna e il bisonte, la donna e il mammut: questo tema ritorna spesso, come un leitmotiv, nell’arte rupestre del Paleolitico. Parte dall’Aurignaziano per poi attraversare il Gravettiano e raggiungere il Magdaleniano, l’ultima tappa dell’arte delle caverne che finisce, inspiegabilmente, intorno a 11.000 anni fa. Non conosciamo il motivo che portò a questo epilogo improvviso. Forse la fine dell’Era Glaciale con i grandi cambiamenti di vegetazione e fauna ad essa collegati scatenò una crisi profonda che sconvolse il mondo dei cacciatori-raccoglitori. Sappiamo soltanto che quest’epoca segnò la fine di una lunghissima tradizione di decine di millenni, una delle più lunghe tradizioni della preistoria, quella che ispirò i nostri lontani antenati europei a tracciare disegni, pitture, incisioni e simboli nel cuore della terra.

Oggi sappiamo che le genti del Paleolitico non abitavano nel profondo delle grotte. Non erano “uomini delle caverne” nel vero senso del termine. Anche quest’immagine è figlia di preconcetti e false supposizioni dei secoli scorsi, dettati dalla mancanza di informazioni più precise. Preferivano invece allestirsi delle tende in accampamenti all’aperto, oppure occupare dei ripari in riva ai fiumi sotto speroni di roccia, talvolta allestivano ad abitazione l’entrata delle caverne, magari nella stagione fredda.

Ma le sale più profonde delle grotte, spesso difficilmente accessibili, non erano abitate. Gli ambiti più reconditi erano esclusivamente destinati all’arte e forse a culti sconosciuti. Di sovente non c’era luce laggiù, i frequentatori dovevano illuminare le pareti con lampade a grasso animale oppure fiaccole. Non di rado gli artisti operavano in posizioni impossibili, accucciati, distesi supini in ambienti estremamente angusti. Spesso tracciavano le loro opere più belle proprio là, dove nessuno poteva vederle. Perché? Forse per loro l’azione contava più del risultato.

UOMO DI NEANDERTHAL - Tracce di una specie scomparsa: