Homo naledi, l’uomo delle stelle. Denominazione indissolubilmente legata alla grotta della stella nascente “Rising Star Cave” situata nella provincia di Gauteng, in Sudafrica, a 50 km nord-ovest di Johannesburg. La scoperta eccezionale di Homo naledi, una nuova specie estinta da aggiungere all’albero dell’evoluzione umana, è stata annunciata dal paleoantropologo Lee Berger nel settembre 2015. Inizialmente si ipotizzò che Homo naledi fosse vissuto sul nostro pianeta da 2 milioni a 900.000 anni fa. Sarebbe stato un contemporaneo dell’Homo erectus, altro nostro remotissimo antenato africano. Poiché i suoi resti fossili individuati nella Rising Star Cave indicavano la probabile presenza di una sepoltura intenzionale, il ritrovamento sollevò un polverone di speculazioni sul pensiero astratto e la ritualità di questi ominidi all’alba dei tempi. Ora Homo naledi torna alla ribalta a causa della nuova datazione che cambia tutte le carte in tavola.

Rising Star Cave: la grotta della stella nascente

Come spesso accade in ambito paleontologico, anche questi reperti furono individuati da due speleologi, Rick Hunter e Steven Tucker. Nel settembre 2013, i ricercatori avevano scoperto nella Rising Star Cave (per la precisione nella zona della caverna chiamata “Dragon’s Back chamber”) un condotto verticale molto stretto che presentava una lunghezza di 12 metri e conduceva ad una camera (la cosiddetta “Dinaledi chamber”) posizionata ben 30 metri sotto il livello di calpestio della Dragon’s Back chamber e 90 metri sotto il livello dell’entrata alla caverna. La pavimentazione della Dinaledi chamber era letteralmente ricoperta di ossa… dall’aspetto umano. Quando gli speleologi mostrarono le fotografie dei resti fossili al geologo Pedro Boshoff, questi si rese conto di trovarsi di fronte ad un’importante scoperta e contattò subito Lee Berger, paleoantropologo dell’Università di Witwatersrand.

La mappa e i disegni mostrano l’ubicazione della „Dinaledi chamber“, il sito in cui sono stati scoperti i resti fossili di Homo naledi. © Paul Dirks et al. CC BY 4.0

La spedizione organizzata da Berger e sponsorizzata dalla South African Research Foundation e dalla National Geographic Society iniziò i lavori nel novembre di quello stesso anno. Poiché il condotto all’interno della Rising Star Cave era strettissimo e presentava un’apertura dai 20 ai 18 cm, Berger si rese conto che soltanto persone dalla struttura corporea molto sottile sarebbero riuscite a introdurvisi e a raggiungere così la camera sotterranea. Formò quindi un team composto esclusivamente da persone di sesso femminile pizza kurier bern , giovani donne minute ed esili in grado di avventurarsi nel pertugio. Questo team d’eccezione è finora unico nella panoramica della ricerca paleoantropologica, forse per tale motivo e sicuramente anche per l’equipaggiamento che le studiose dovevano indossare prima di intraprendere la discesa, Hannah Morris, Marina Elliott, Becca Peixotto, Alia Gurtov, Lindsay Eaves, and Elen Feuerriegel sono state chiamate scherzosamente “underground astronauts” (le astronaute del sottosuolo).

La prima spedizione avvenne nel sito denominato UW 101, la camera sotterranea “Dinaledi”. Una seconda spedizione nell’aprile 2014 ebbe luogo in un altro sito (UW 102) sempre compreso all’interno della Rising Star Cave. I risultati superavano qualsiasi aspettativa. Nel settembre 2015 erano stati portati alla luce più di 1500 fossili (compresi frammenti di crani), i resti di ben 15 individui appartenenti ad una specie di ominide ancora sconosciuta. Si tratta del maggior numero di fossili appartenenti ad una medesima specie che siano mai stati scoperti in Sudafrica. Ciò significa che studiando questi reperti si può apprendere una gran quantità di informazioni su Homo naledi e che, nonostante questa specie sia appena venuta alla luce, alla fine del lavoro di analisi e studio Homo naledi sarà uno degli ominidi maggiormente documentati.

„Dinaledi chamber“, la camera delle stelle. Le ossa di 15 individui della specie Homo naledi si trovavano qui. © Paul Dirks et al. CC BY 4.0

Nella lingua sosotho, una delle diverse parlate della regione, “Dinaledi chamber” significa “camera delle stelle” e “naledi” stella, da qui il nome che Lee Berger e il suo team diedero alla nuova specie di ominide: Homo naledi. Una creatura delle stelle che doveva misurare circa 1,50 di altezza e pesare intorno ai 45 kg, e che presentava alcune caratteristiche fisiche comuni agli australopiteci e altre tipiche, invece, della specie Homo. Se la morfologia del cranio, la mandibola e la dentatura minuta facevano pensare alla specie Homo, il piccolo cervello (ca. 560 cm cubi) era caratteristico delle grandi scimmie e degli australopiteci.

Di contro, la struttura del corpo dalla testa in giù rimandava chiaramente ad una popolazione di piccoli individui della specie Homo, nonostante le spalle spiccatamente arcuate assomigliassero di più a quelle degli australopiteci. Se le mani di Homo naledi potevano sicuramente usare degli utensili, erano però incurvate in modo tale da far pensare che Homo naledi sia stato un ottimo arrampicatore. I piedi non si differenziavano per nulla da quelli della specie Homo. Anche la struttura delle gambe, abbastanza lunghe se rapportate al tronco, indicava che il piccolo ominide era stato in grado di percorrere lunghi tratti a piedi.

Il mistero dell’uomo delle stelle

Dove collocare questa specie? Per farla breve, Lee Berger si trovava di fronte ad un dilemma. Soprattutto perché ancora non era possibile datare con certezza i resti fossili di Homo naledi. E tuttavia le caratteristiche fisiche miste di questi 15 individui suggerivano la loro appartenenza ad una specie che poteva forse essere il missing link, l’anello mancante del passaggio evolutivo dagli australopiteci alla specie Homo. Per questo motivo inizialmente si fu tentati di collocare Homo naledi in un’epoca intorno a 2 milioni di anni fa.

Ricostruzione di Homo naledi. © Cicero Moraes et al. CC BY 4.0

A ciò si aggiungeva la situazione in cui i resti fossili erano stati trovati. Non sembrava possibile che fossero finiti in quello stretto condotto e quindi nella camera sotterranea della grotta a causa dell’influsso di qualche agente naturale, ma piuttosto che fossero stati deposti lì intenzionalmente. Anche l’intervento di animali fu subito scartato, poiché che le ossa non presentavano nessuna traccia di morsi animali.

Pareva davvero che qualcuno avesse voluto dare loro una sepoltura. Dunque Homo naledi seppelliva i suoi morti? Anche un rito funerario “semplice” di questo tipo implica la presenza di un pensiero astratto che, a sua volta, avrebbe portato al compimento di azioni rituali nei confronti di individui della propria specie. Dunque se veramente Homo naledi fosse vissuto circa due milioni di anni fa, quest’ominide sarebbe stato in grado di seppellire i defunti ben prima dell’uomo di Neanderthal o dell’Homo sapiens. Un dato assolutamente sorprendente.

Scheletro del piccolo Homo naledi. © Lee Berger research team CC BY 4.0

È chiaro che la scoperta di Homo naledi abbia sollevato un polverone di interrogativi e dibattiti in ambiente accademico: l’ominide che rappresentava l’anello mancante fra australopiteci e ominidi, il piccolo individuo dal cervello di una scimmia e la corporatura della specie Homo e già in grado di seppellire i morti, suggeriva diverse ipotesi. Si levarono le voci dei grandi esperti. Mentre il paleoantropologo americano Tim White argomentava che poteva trattarsi di un esemplare arcaico di Homo erectus africano, il paleoantropologo inglese Chris Stringer credeva di individuare in Homo naledi dei paralleli con l’Homo erectus di Dmanisi, in Georgia, i cui resti erano stati datati intorno a 1,8 milioni di anni fa. Poi c’erano i più scettici come il famoso primatologo Ian Tattersall che, basandosi sulla grande diversità dei singoli reperti fossili recuperati nella Rising Star Cave, pensavano fossero attribuibili non ad una, ma a due specie di ominidi differenti.

La datazione rivelatrice

Oggi sappiamo che Homo naledi rappresenta davvero una (e una soltanto) nuova specie nell’albero dell’evoluzione umana e che l’uomo delle stelle conta circa 250.000 anni d’età. È dunque molto più “giovane” di quanto si era supposto inizialmente. È stato lo stesso Lee Berger ad annunciarlo, pubblicizzando la prossima uscita del suo saggio dal titolo “Almost Human”. Nel corso di un’intervista per la rivista National Geographic, il paleoantropologo afferma che Homo naledi visse sul nostro pianeta da 300.000 a 200.000 anni fa.

Comparazione di crani dei diversi ominidi. © Chris Stringer, Natural History Museum, Regno Unito. CC BY 4.0

Una grande sorpresa che conduce a importanti conseguenze. Se davvero la nuova datazione si rivelerà essere quella giusta (dobbiamo aspettare di leggere la pubblicazione di Berger per conoscere i dettagli dell’analisi scientifica che ha portato a questo risultato), il nuovo ominide ha vissuto in Africa insieme con l’Homo erectus e forse anche con l’Homo sapiens più arcaico.

Vediamo dunque che l’universo preistorico in cui si muoveva il primo Homo sapiens, nostro antenato diretto, era molto più vario di quanto si fosse immaginato. Accanto alla sua specie, che si sviluppò in Africa intorno a 160.000 anni fa, vivevano altri ominidi dall’aspetto e dalle culture differenti. In Europa, Asia e Medio Oriente c’era il pallido e robusto uomo di Neanderthal, in Asia e Melanesia il grande Denisova dagli occhi scuri, sull’isola di Flores il piccolissimo Homo floresiensis, ed ora sappiamo che anche Homo naledi solcava il caldo paesaggio africano. Di conseguenza la domanda sul motivo che portò alla sopravvivenza del solo Homo sapiens mentre tutte le altre specie presto o tardi si estinsero, si fa sempre più incalzante.

Le ossa delle mani di Homo naledi indicano la sua abilità di arrampicatore ma anche la capacità di fabbricare utensili. © Lee Berger research team CC BY 4.0

Intanto le ricerche di Lee Berger dell’Università di Witwatersrand e John Hawks dell’Università di Wisconsin continuano e si mormora che i due studiosi abbiano, nel frattempo, individuato una nuova camera sempre compresa nel complesso di caverne della Rising Star Cave, in cui sarebbero stati recuperati i resti di altri tre individui. Anzi, sarebbero stati proprio i fossili scoperti in questa nuova camera a permettere l’analisi che ha fornito la datazione di Homo naledi. Non c’è che dire. Grande lavoro di scienziati di primo piano. Del resto ricordiamo che a Lee Berger si deve anche la scoperta dell’Australopithecus sediba, avvenuta nel 2008 nelle Grotte di Malapa (Sudafrica), un ominide che costituisce il link fra l’Australopithecus africanus e l’Homo habilis.

 

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