Dall’Africa ai Pirenei
Tracking in caves? Boscimani di oggi e impronte di 17.000 anni fa? Proprio così. Oltre alle immagini, incisioni e sculture che trasformano gli ambienti rocciosi in splendidi musei naturali, gli uomini del Paleolitico hanno lasciato nelle caverne europee anche tracce di piedi, di mani. Segni del loro passaggio che potrebbero fornirci informazioni preziose sul modo di vivere di queste genti e che fino a poco tempo fa erano ancora un libro chiuso. Oggi il rebus comincia ad essere risolto grazie all’idea geniale di due archeologi tedeschi, Andreas Pastoors e Tilman Lenssen-Erz. Il loro progetto: “Tracking in Caves”.
Si potrebbe dire che il rebus viene risolto passo dopo passo, dato che gli esecutori effettivi di questo piccolo prodigio sono dei trackers, ovvero lettori di tracce animali, che però in questo caso leggono le impronte dei piedi umani. Caratteristiche particolari dei trackers: lavorano in tre, vengono dalla Namibia, sono Boscimani (San) e in grado di decifrare le impronte sin da quando erano bambini. Anzi, quest’arte ce l’hanno proprio nel sangue, perché la praticavano già i loro padri e, prima di questi, i padri dei loro padri, sino ad arrivare agli abitanti originari dei territori dell’Africa subequatoriale.
I San, un’etnia africana autoctona che oggi vive nel Kalahari del nord e al confine fra Namibia e Botswana, sono noti per la loro abilità di trackers. Così i due archeologi tedeschi hanno deciso di unire le loro forze scientifiche a quelle tradizionali dei San in questo fantastico progetto che coinvolge l’Università di Colonia e il Neanderthal Museum di Mettmann.
Tilman Lenssen-Erz è uno specialista delle pitture rupestri della Namibia occidentale, Andreas Pastoors un esperto del Paleolitico nelle grotte dei Pirenei. E proprio laggiù, nei Pirenei, ci sono decine di caverne naturali in cui gli uomini del Paleolitico hanno lasciato, oltre a numerose opere d’arte, le tracce dei loro piedi. Segni remoti che giungono da quell’epoca chiamata Magdaleniano, e quindi risalgono a circa 18.000-12.000 anni fa.
Dunque Pastoors e Lenssen-Erz hanno organizzato di recente il soggiorno dei tre Boscimani nei Pirenei, affinché questi esperti potessero esaminare sul luogo le impronte dei nostri antenati. I nomi dei tre San namibiani hanno per noi un suono esotico: Cwi Kxunta, Thui Thao e Tsamkxao Ciqae. E se già i nomi sono difficili da leggere e da scrivere, ancor più complicata è la pronuncia esatta che soggiace alla suggestiva lingua Khoi-San, la lingua a clic. Quella che, ipotizzano alcuni studiosi, potrebbe forse corrispondere al primo linguaggio parlato dall’Homo Sapiens.
Ma torniamo alle caverne dei Pirenei. Anche se di solito non se ne parla, sul suolo di molte di queste grotte ci sono centinaia di impronte umane. Tracce meno spettacolari delle pitture, ma di certo importantissime. Nel Paleolitico i frequentatori delle caverne avevano camminato sulla sabbia oppure sul fango lasciando delle impronte che poi, con il passare dei millenni, sono state ricoperte da uno strato di calcare e quindi si sono indurite.
Leggere le impronte come un libro aperto
Ora disegnano affascinanti, enigmatici percorsi sul terreno naturale. La loro interpretazione, osserva Pastoors, è pressoché impossibile se manca la competenza necessaria per poterla effettuare. Normalmente un archeologo non è specializzato in questa tecnica che invece per i Boscimani è normale e anzi necessaria per muoversi a proprio agio nell’habitat naturale africano. Nel giro di pochi minuti – talvolta addirittura di secondi – i San possono leggere le tracce animali, in una mezzoretta le impronte umane che sono più complesse, spiega Tsamkxao Ciqae nel corso di un’intervista del luglio scorso rilasciata alla rivista scientifica “Bild der Wissenschaft”.
Inutile dire che i primi esperimenti in Francia si sono rivelati un grande successo. Altrettanto grande è stata l’eco in ambiente scientifico. Attraverso l’esame delle impronte, i San si sono mostrati in grado di individuare l’età, il sesso, il modo di camminare, lo stato di salute e spesso anche l’attività intrapresa in quel momento dai frequentatori delle caverne.
Un esempio lampante dell’utilità del progetto “Tracking in Caves”, è stata l’analisi delle tracce nella grotta francese di Niaux. Questi segni erano stati esaminati anni addietro dall’antropologo Léon Pales. Si tratta di impronte di piedi su una superficie fangosa, posizionate in un luogo particolare: una nicchia che si trova ad un’altezza di circa 1 metro dal suolo. La superficie di fango indurito sul pavimento della nicchia abbraccia circa 6 metri quadrati e le tracce sembrano, a prima vista, distribuite in modo disordinato.
Chi ha camminato in quella nicchia e per quale motivo? Una domanda più che interessante, soprattutto perché la parete rocciosa sopra la nicchia è molto bassa e non permette il passaggio di una persona in posizione eretta. Impossibile camminare normalmente lì sotto. A meno che… non si trattasse di bambini. Quindi l’antropologo francese alla fine ipotizzò che due o tre ragazzini di un’età dai nove ai dodici anni si fossero addentrati nella nicchia e avessero camminato… tenendo le gambe piegate.
Ma perché avrebbero dovuto farlo? Forse solo per gioco. Oppure, suggerirono altri esperti, era qualcosa di serio, anzi di sacro: un rito di iniziazione, durante il quale i ragazzini si aggiravano lì sotto danzando a piedi nudi. A quanto pare, quando saltano fuori delle cose strane e non facilmente spiegabili, l’archeologia fa ampio uso di spiegazioni a base di rituali iniziatici.
Invece no. I tre San hanno individuato le impronte di una sola persona: una ragazza di circa dodici anni che non danzava affatto. Ha camminato nella nicchia, e per di più sicuramente in posizione eretta. È possibile, infatti, che 17.000 anni fa il soffitto di roccia sopra la nicchia fosse più alto e che si sia abbassato dopo, in seguito ad un millenario accumulo di calcare.
Nella grotta di Fontanet, un’altra lettura di tracce eseguita dai San si è rivelata particolarmente impressionante e ha potuto addirittura ricostruire lo stralcio di vita di una famiglia del Paleolitico. Una sala tra le pareti di roccia. Un centinaio di impronte sul terreno. Di chi? I tre namibiani hanno individuato 17 persone: due donne, undici uomini, un bambino e tre bambine. Età: dai 3 ai 60 anni. Che cosa facevano? Una donna di circa 30 anni era scivolata per terra, lasciando una traccia sul terreno; un’altra, più giovane, passeggiava insieme ai bambini; un uomo era corso fuori della grotta in tutta fretta.
E poi ancora una revisione. Una delle impronte di Fontanet mostrava un piede apparentemente privo di dita. Scarpe, aveva pensato a suo tempo l’antropologo Pales, questa persona indossava delle scarpe. Invece no. I tre San osservano con attenzione la traccia, scoprono leggerissime impronte di dita, quasi invisibili. Allora discutono animatamente fra loro in khoisan, si mettono d’accordo e poi sentenziano: il passaggio di una ragazza.
Le caverne? Non luoghi di culto ma abitazioni
Così, poco a poco, emerge tutto un mondo scomparso. Là, dove le impronte di una stessa persona mostrano la traccia di un piede più profonda di quella dell’altro, si tratta di un uomo anziano che camminava a fatica, trascinando una gamba. E tutte queste persone, ma proprio tutte, andavano a piedi nudi nelle grotte.
Erano scalzi perché si sentivano come a casa propria? Evidentemente sì. Se non fa particolarmente freddo, il fatto di camminare a piedi nudi conferisce molta più stabilità alla persona. Correre a piedi nudi, per chi ci è abituato, è molto più comodo e veloce che correre con delle scarpe da ginnastica ai piedi. Anche perché aiuta a sviluppare dei muscoli sotto la pianta del piede che noi moderni, con le nostre scarpe dalle suole ammortizzate, quasi non percepiamo più.
Appare ormai sfatato lo scenario di grotte quali luoghi esclusivamente sacri, a cui solo gli sciamani avevano accesso e in cui si eseguivano danze rituali. Quando una giornalista chiede a Tsamkxao Ciqae se è possibile che in una delle caverne da lui visitate i nostri antenati abbiano svolto danze rituali, lui alza le spalle e risponde pragmatico “E perché avrebbero dovuto danzare? Se avessero danzato, poi, l’avremmo letto nelle loro tracce.”
Insomma, tutto molto più semplice e logico di quanto non sembri a prima vista. Ogni persona poteva soggiornare nelle caverne, uomini, donne e bambini. Ci svolgevano la loro vita quotidiana (o parte di essa), occasionalmente creavano opere d’arte. E poi c’è dell’altro. Nelle grotte francesi Tuc d’Audoubert, celebri per la splendida scultura di due bisonti di fango rappreso che risale a circa 17.000 anni fa – un unicum dell’arte paleolitica – ci sono centinaia di impronte di piedi umani dappertutto, sono distribuite in numerosi punti delle caverne.
Alcune di esse sono particolarmente strane. A prima vista sembrano solchi rotondi. I trackers svelano il mistero: i segni rotondi sono impronte di talloni lasciate da un uomo e un ragazzo che hanno camminato sul suolo molle trasportando del materiale da una parte all’altra della caverna. Fango. Un peso complessivo di circa 50 chili, precisano i San. L’hanno fatto per realizzare lo splendido gruppo scultoreo con due bisonti. Erano loro gli artisti, artefici del gruppo scultoreo: un trentenne e un ragazzino di circa 14 anni.
In una stanza che presenta resti di un accampamento in cui venivano prodotti utensili di pietra, i San hanno individuato le impronte di tre donne e una ragazzina. Poco lontano da lì ci sono resti di animali macellati e più in là ancora, dei dipinti parietali. Poi appaiono altre impronte di piedi. Tante e differenti. Ancora una famiglia che viveva nella grotta.
In molte caverne franco-iberiche ci sono, inoltre, quelle mani. Impronte di mani su sfondo rosso o nero decorano le pareti rocciose. Sono state ottenute soffiando il pigmento colorato per mezzo di una cannuccia. Anche qui i trackers hanno ricostruito un nuovo scenario: niente magia, nessuno sciamano, poche impronte maschili, ma soprattutto mani più gracili di donne e bambini. E l’archeologo inglese Paul Pettitt conferma, dopo aver esaminato e sottoposto a misurazione un gran numero di impronte parietali nelle grotte di Cueva de los Castillos e di La Garma, in Cantabria.
Scoperte emozionanti. Ma questo è solo l’inizio. Ci attendono ancora molte sorprese. Non possiamo che augurarci il buon proseguimento del progetto “Tracking in Caves” di Tilman Lenssen-Erz e Andreas Pastoors. Due archeologi lungimiranti, che hanno saputo cogliere l’importanza di un nuovo tipo di lavoro interdisciplinare basato sul connubio fra scienza e tradizione.
link al progetto „Tracking in Caves“
link al Neanderthal Museum di Mettmann
L’immagine di riti sacri e danze rituali ha sempre affascinato un po‘ tutti. A me è sempre parsa una „licenza poetica“ di molti antropologi.