Le scritture più antiche ci trasmettono dal passato messaggi indecifrabili. Sono enigmi che attendono di essere svelati. O forse no? Forse il loro scopo originario era proprio la segretezza? Magari l’origine della scrittura, una conoscenza destinata a pochi, aveva il compito di trasmettere messaggi segreti accessibili soltanto a una cerchia ristretta di iniziati. Possibilmente si trattava di un mezzo di comunicazione sacro, un filo sottile e inintelligibile che tramandava un sapere occulto da sciamano a sciamano, affinché questi lo custodisse e lo trasmettesse, a sua volta, alle generazioni future. Oppure era una scuola per tutta la posterità, un’enciclopedia di nozioni pratiche, miti e rituali segreti.
La scrittura della Vecchia Europa
„Homo sapiens“, così fu definita la nostra specie. Fummo davvero i primi homines sapientes sulla Terra? E quando inventammo la scrittura? Andiamo a vedere quali sono i sistemi di scrittura più arcaici attualmente conosciuti. Due di essi, preistorici, sono ancora discussi. Uno proviene dalla Cina settentrionale. Si colloca nella cultura neolitica Peiligang che risale al 5600-4900 a.C. Resti della cultura Peiligang furono scoperti nel 1977 nella provincia di Henan: utensili di pietra e di argilla dalle forme eleganti ed essenziali. Le genti appartenenti a questa cultura praticavano l’agricoltura e l’allevamento di bestiame che venivano integrati da caccia, pesca e raccolta.
Ebbene, sui manufatti Peiligang appaiono sedici incisioni che risalgono al 6.600 a.C. e potrebbero rispecchiare un sistema di scrittura, affermano alcuni. Altri studiosi, invece, interpretano le incisioni cinesi come segni di riconoscimento impressi dai vasai, oggi diremmo: dei marchi di fabbrica. Del resto bisogna anche sottolineare che queste incisioni asiatiche sono troppo rare, la varietà dei segni è troppo esigua per poter parlare di un sistema di scrittura.
Diversa è la situazione con le tavolette rumene di Tartaria, quelle bulgare di Gradesnica e i segni della cultura Vinca che appaiono su numerosi artefatti dei Balcani. Siamo ancora nel Neolitico. Le tavolette di Tartaria, scoperte nel 1961 in un villaggio presso Alba Julia, risalgono circa al 5300 a.C. Rappresentano per alcuni studiosi un sistema di scrittura della Cultura del Danubio (detta anche della Vecchia Europa). In prima linea il filologo tedesco Harald Haarmann, che da anni si occupa della decifrazione, ne è convinto.
In questo caso possiamo dire che i segni sono più di 200 e le incisioni che li riportano più di 1500. Haarmann pensa che il sistema di scrittura della Vecchia Europa si sia sviluppato da una lingua parlata che finì per estinguersi dopo l’arrivo dei Protoindoeuropei dalle steppe asiatiche. Ma non fu del tutto perduta. Il sistema di scrittura danubiano avrebbe ispirato la scrittura cretese lineare A del 2500 a.C. Questo sostiene Haarmann, che riconosce evidenti paralleli grafici fra i due sistemi. (Vedi articolo dedicato).
I rilievi di Göbekli Tepe
Dunque già queste forme di scrittura, se realmente tali, avrebbero preceduto di millenni il sistema sumero e anche quello egizio che finora sono sempre stati considerati i più antichi del mondo. Ma c’è un elemento fondamentale che differenzia la “scrittura” della cultura danubiana da quella sumera ed egizia: mentre la forma più arcaica delle seconde fu quella ideografica, la scrittura danubiana presenta segni astratti sin dall’inizio. Non vi appaiono figure, niente raffigurazioni schematiche di occhi, mani, oppure animali, ma piuttosto spirali, punti, aste e meandri. Manca la fase ideografica. Anche tale fattore porta gli studiosi più restii a non voler riconoscere nei segni danubiani le origini della scrittura.
Prima l’immagine, poi l’astrazione. La nostra mente è abituata a pensare seguendo quest’ordine. Ma sarà davvero così? È questa l’unica possibilità? Oppure ci può essere stato anche uno sviluppo diverso? E se in alcuni casi l’astrazione fosse stata alle radici di tutto? Se il modo di esprimersi e di comunicare di queste genti danubiane fosse stato del tutto diverso? Oppure è esistito anche in quest’evoluzione di scrittura della Vecchia Europa un primo stadio composto da ideogrammi che finora non abbiamo ancora identificato? Non sono ancora venuti alla luce i reperti in grado di suffragare tale ipotesi? O forse i reperti ci sono, ma siamo noi a non riconoscerli?
E che cos’è poi la scrittura? Un mezzo di comunicazione, uno strumento per esprimere informazioni pratiche, pensieri astratti. Ma questo obiettivo può essere raggiunto anche tramite simboli che non facciano parte di un vero e proprio sistema. Forse dovremmo liberarci dagli schemi cui siamo abituati e aprirci ad altre possibilità. Sì, perché poi c’è l’enigma di Göbekli Tepe, dei siti mesolitici dell’Anatolia. Qui si retrocede nel tempo, parliamo di segni e immagini che risalgono a ben 12.000 anni fa. Un enigma che si colloca cronologicamente fra la Vecchia Europa e il Paleolitico. Fra gli agricoltori e allevatori di bestiame che si stabilivano nelle aree situate lungo le rive del Danubio e nei Balcani, e i cacciatori raccoglitori che dipinsero la roccia nelle caverne ibero-francesi.
A Göbekli Tepe potremmo trovare lo stadio ideografico di una sorta di scrittura in embrione negli splendidi bassorilievi che ornano i pilastri dei santuari. Non sono io la sola a suggerirlo, ne è convinto anche il professor Ludwig Morenz dell’Università di Bonn. Secondo lo studioso, le immagini di Göbekli Tepe avrebbero avuto un significato ben preciso. Non si tratterebbe di arte fine a sé stessa, né di un sistema di scrittura nel vero senso del termine, ma pur sempre di un mezzo di comunicazione tramite simboli. Una mano aperta: un segno di difesa; un serpente: un segno di pericolo, oppure delle forze della terra, o ancora dell’energia dell’acqua. (Vedi articolo dedicato).
Homo sapiens, homo scriptor?
E come la mettiamo con il Paleolitico? Ci sono misteriosi segni e raffigurazioni che appaiono di frequente su artefatti di diversi materiali, così come anche sulle pareti delle caverne. L’antropologo Martin Kuckenberg osserva che nelle culture preistoriche in cui non sembra essere esistito un sistema di scrittura e la tradizione veniva tramandata oralmente, possono essere purtuttavia esistiti simboli e segni dal significato ben preciso che avevano la funzione di comunicare messaggi all’osservatore attento.
Tipici sono le incisioni praticate su manufatti di osso, avorio, conchiglia o corno che contano anche fra le più antiche in assoluto. Ricordo l’osso inciso scoperto nel sito tedesco di Bilzingsleben, nella Turingia, un reperto risalente addirittura a più di 300.000 anni fa ed opera dell’abilità dell’Homo erectus heidelbergensis. Un oggetto impressionante, soprattutto se pensiamo che lo stesso giacimento paleolitico di Bilzingsleben era costituito da abitazioni e officine da lavoro con tanto di incudini. Secondo il paleontologo e suo scopritore Dietrich Mania, a Bilzingsleben ci sarebbe stata addirittura un’area adibita a luogo di culto.
Nel Paleolitico superiore (a partire da 40.000 anni fa), artefatti di questo tipo si susseguono con una frequenza tale, che è davvero difficile non pensare a oggetti importanti, con una specifica funzione. Molti sono i bastoni ricavati dai materiali più differenti, dal corno all’avorio. Gli studiosi li hanno definiti “bastoni della numerazione”. Avrebbero avuto la funzione, come si può capire dall’appellativo, di annotare un certo numero di avvenimenti precisi come per esempio il bottino di una caccia, oppure di fissare in qualche modo una sequenza temporale.
Alcuni artefatti non presentano soltanto linee, ma anche segni a “V”, oppure a “X”. Tipico è il caso di una tavoletta di scisto scoperta nella Grotta di Pekarna, nella Repubblica Ceca, che risale a 12.000 anni fa e riporta appunto questa combinazione di segni misteriosi. Emblematico è poi il caso della tavoletta di osso del sito paleolitico francese Abri Blanchard, nella Dordogna. Questa presenta una serie di punti incisi sino a formare linee rette e serpentine che suggeriscono all’osservatore l’esistenza di un sistema ben preciso.
Il reperto affascinò il ricercatore americano Alexander Marschack, il quale ebbe l’idea di sottoporre il reperto all’analisi del microscopio binoculare, scoprendo così che le incisioni di Abri Blanchard erano state eseguite con attrezzi differenti e quindi non durante un’unica giornata di lavoro, bensì in più riprese, in un certo arco di tempo. Inoltre dalla disposizione e il numero dei punti Marschack dedusse che la tavoletta doveva aver rappresentato un calendario lunare. Il ricercatore vi identificava le fasi della luna e lo spostamento dell’astro nel cielo durante il corso dell’anno.
Ma le incisioni puntiformi di Abri Blanchard richiamano subito alla memoria dell’appassionato di preistoria e del paleontologo la figurina dell’Adorante, un prezioso reperto portato alla luce insieme con molti altri pezzi di inestimabile valore nella grotta tedesca di Geißenklösterle, non lontano da Ulm. Un pezzo che risale a ben 30.000 anni fa. È fatto di avorio di mammut e misura appena 3,8 cm di lunghezza. L’artista dell’Aurignaziano lo ha lavorato da entrambe le facce. Da una parte si vede una figura di difficile interpretazione, con le braccia alzate verso il cielo come fosse in preghiera (per questo la figurina è stata chiamata l’Adorante), le gambe sono divaricate e, fra le gambe, appare il lembo di un perizoma oppure una coda di animale. Difficile dire se si tratti di una figura esclusivamente umana, oppure zoomorfa.
Dall’altra parte sono incise quattro file parallele di tredici punti. L’archeologo Joachim Hahn, scopritore dei tesori della grotta, scrisse in proposito:
“Fino a che punto questi segni siano incisioni intenzionali, magari le sequenze temporali di una specie di calendario, è difficile dirlo. Si potrebbe immaginare che il numero 13 corrisponda ai cicli della luna (pro anno solare). La figura potrebbe rappresentare una persona umana collegata al ciclo dell’anno oppure addirittura una divinità del cielo.”
L’archeologo prof. Hans-Jürgen Müller Beck dell’Università di Tubinga osserva:
“Se l’astro celeste più grande – il sole – raggiunge dopo 365 giorni e notti lo stesso punto all’orizzonte sopra le montagne di Geißenklösterle, la luna – il secondo corpo celeste più grande – ha quasi completato per 13 volte le sue 4 fasi da plenilunio a plenilunio facilmente osservabili a occhio nudo. (…) È dunque assai poco probabile che questa combinazione (n.d.a.: numero 4 e numero 13) possa essere interpretata in altro modo.”
Dunque 40.000 anni fa i nostri antenati aurignaziani osservavano il cielo ed erano molto probabilmente in grado di compilare dei calendari lunari.
Non solo calendari, anche mappe
Altri testimoni impressionanti di quella che si potrebbe definire “la mamma di tutte le scritture del mondo” sono reperti d’avorio che giungono dalla Repubblica Ceca, dai giacimenti paleolitici di Pavlov e Dolni Vestonice. Datazione: intorno a 25.000 anni fa. Uno di questi artefatti, ricavato dalla zanna di un mammut, riporta una serie di linee curve dal piglio molto raffinato. L’archeologo ceco Bohuslav Klima vi riconosce la carta di un paesaggio preistorico che circondava un insediamento umano. Klima identifica nell’elegante disegno un fiume, delle montagne e l’insediamento nel mezzo, raffigurato da una doppia circonferenza. Un altro oggetto ricavato anch’esso dalla zanna di mammut e scoperto nel giacimento paleolitico della vicina Dolni Vestonice, presenta un disegno geometrico che gli studiosi hanno interpretato come raffigurazione astratta di una donna incinta.
Questi sono soltanto alcuni dei tanti manufatti del Paleolitico superiore che potrebbero far parte di un’ampia simbologia la quale, molti millenni dopo, avrebbe ispirato veri e propri sistemi di scrittura. A ciò si uniscono poi le pitture nelle grotte, tutto un mondo a sé, ricco di bellezza e mistero. Le raffigurazioni di animali sono accompagnate spesso da punti, linee, segni e cerchi. L’antropologo francese André Leroi-Gourhan ha definito questi elementi “mitogrammi”, vale a dire “rappresentazioni simboliche il cui rapporto con il soggetto può essere compreso soltanto tramite la parola, il racconto orale.”
Non si tratta, quindi, di un sistema di scrittura nel senso moderno del termine, ma di simboli strettamente legati a una tradizione orale. Forse questi segni, combinati alle figure dipinte, avevano una funzione pedagogica, forse sacra, o forse espletavano entrambe le funzioni. In ogni caso dovevano tramandare delle conoscenze alle generazioni future. In altro articolo ho già parlato della misteriosa raffigurazione del bisonte e del cacciatore scoperta nella Grotta di Lascaux, in Francia, che risale a 16.000 anni fa. La scena riporta un grande bisonte trafitto da una lancia con lo sguardo rivolto verso l’altro, una figura umana dal membro eretto e la testa d’uccello che sembra essere stesa a terra davanti al bisonte o forse sollevarsi da terra dinanzi all’animale in procinto di morire e, accanto alla figura umana, un uccello in cima ad un’asta.
Si tratta di una scena di caccia? Sicuramente non solo di questo. È evidente che la testa d’uccello della figura umana e anche il misterioso volatile in cima al bastone – forse un uccello totem – indicano che la scena cela anche un significato astratto. Il preistorico Horst Kirchner vi vedeva “la raffigurazione sorprendentemente naturale di un esorcismo sciamanico” e l’antropologo Kuckenberg osserva che questa tradizione, ancora oggi, è viva nelle popolazioni di cacciatori. Ma potrebbe anche essere la rappresentazione di un mito.
Come spiego in altro articolo, potrebbe trattarsi della “caccia cosmica”, un mitema arcaico che sfidò i secoli e i millenni raggiungendo la Grecia antica e trasformandosi poi nella leggenda d’Arcadia, quella della ninfa Callisto e del figlio Arcas tramutati in orsi che, per volere degli dei, salgono al cielo e diventano immortali nelle costellazioni dell’Orsa maggiore e dell’Orsa minore. Il bisonte, a Lascaux, sostituirebbe l’orso. Il cacciatore dal membro eretto si sarebbe molto più tardi sdoppiato nei personaggi di Callisto ed Arcas. Ma il mitema, quello della “caccia cosmica”, era già lì. Nell’immaginazione e nelle leggende del Paleolitico. (Vedi articolo dedicato)
Il messaggio occulto di La Pasiega e Cueva Llonin
E per finire, vorrei citare ancora le grotte spagnole di La Pasiega e Cueva Llonin con le loro raffigurazioni rupestri (ca. 20.000 anni fa) che mi hanno impressionato parecchio. In questo caso non per la loro bellezza, giacché non possono concorrere per linee ed eleganza con quelle di Chauvet o Lascaux. E tuttavia la loro forza sta proprio nel significato, nel mistero. In particolare una raffigurazione che sembra riportare sulla sinistra un gruppo di abitazioni o un edificio sacro. Accanto ad esso si vedono impronte di piedi, o forse di zampe d’orso, accompagnate da segni dal significato nascosto.
Ebbene, le pitture di La Pasiega e Cueva Llonin sono a mio avviso indizi più che evidenti della forte funzione simbolica delle rappresentazioni rupestri. Sicuramente il pittore delle caverne spagnole voleva comunicare un messaggio. Non era il piacere estetico, la motivazione che lo spinse a dipingere su quella roccia, ma il valore del messaggio stesso. E poi da simboli come questi ai pittogrammi che costituiscono gli inizi dei sistemi di scrittura delle cosiddette grandi culture, il passo è breve.
Per l’uomo di Neanderthal rimando al mio saggio:
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Sempre interessante leggerti.