All’inizio c’è un sasso. Il cosiddetto “Makapansgat pebble”, un ciottolo di diaspro che conta ben 3 milioni di anni. Ha un colore marrone rossiccio e pesa 260 grammi. Fu trovato negli anni Settanta del XX secolo in Sudafrica in una cava di dolerite, sulle rive del fiume Limpopo. E, in un certo senso, si potrebbe definire la pietra dello scandalo. Perché? Sulla sua superficie sono scolpiti in modo rudimentale dei lineamenti umani. Occhi rotondi, bocca a fessura, accenni a un copricapo oppure un taglio di capelli. Il Makapansgat pebble è stato portato alla luce nei pressi di una fonte naturale, nell’orizzonte di scavo dell’australopiteco africano. Il prodotto di uno scherzo della natura oppure una delle sculture più antiche? Lineamenti maschili o femminili?
Makapansgat pebble: il femminino sacro conta 3 milioni di anni?
Uomo? Donna? Ma è possibile che già l’australopiteco fosse in grado di realizzare manufatti dal valore simbolico? Sarebbe una scoperta impressionante in grado di rivoluzionare la nostra idea dell’evoluzione umana. E se sì, chi rappresentava il Makapansgat pebble? Impossibile dirlo con certezza. Ma, ammesso che il ciottolo raffiguri un volto umano, l’ipotesi che si tratti di una donna pesa parecchio. Lo sostengono gli studiosi che ritengono il Makapansgat pebble un oggetto artistico. Per un semplice motivo: a lei furono dedicate le prime sculture del Paleolitico, le prime statuette delle cosiddette “Veneri”, corpi di donnine dalle forme esuberanti, testine femminili, oppure anche rappresentazioni astratte dal profilo chiaramente femminile. Sono queste le forme d’arte (o/ e di culto) più arcaiche che si conoscano.
Che cosa simbolizzavano veramente queste immagini? Probabilmente il femminino sacro alle origini del mondo. L’Eva africana, la prima madre, una forza della creazione che si rispecchiava quotidianamente nella fertilità della terra, nella lussureggiante ricchezza della natura e nell’abbondante selvaggina da cacciare. Anche dalle nebbie più “recenti” del Neolitico ci vengono incontro miriadi di raffigurazioni femminili su oggetti di uso quotidiano: recipienti, pitture parietali, tempietti, altari. Si trattava, insomma, della prima divinità della natura, la più naturale del mondo, perché era la donna che donava la vita. La Grande madre.
Poi ci fu uno iato. Alla fine del Neolitico e all’alba delle grandi culture l’immagine del femminino sacro cambiò. Con i signori di Sumer ed Egitto la celebrazione della Madre universale impallidì, passò in secondo piano. Dovette cedere il primato al dio della guerra. Allora le divinità femminili che prima erano state esclusivamente dee madri custodi dell’esistenza terrena e dell’oltretomba, subirono una profonda metamorfosi e si tramutarono in donne guerriere, così da poterle affiancare agli dei imperiosi delle prime dinastie di regnanti. E accadde che, da signora della vita, la dea divenne portatrice di morte.
Intanto i re si circondarono di un’aura sacra. I dominatori che innalzavano potenti mura per difendere le città dagli attacchi nemici, legittimavano il proprio primato paragonandosi al toro divino. Colui che fecondava la madre. “Il toro della madre”, il figlio della dea antica che ora sedeva sul trono più in alto di lei. Per ironia del destino, l’egizia Iside continuò a portare il simbolo del trono sul capo, ma era ormai solo l’eco di un passato glorioso perché alle origini del mondo erano subentrate divinità maschili come Ptah o Atum. Religioni nuove di signori del cielo e del sole si erano sovrapposte a quella primordiale di madre natura. E anche le antiche sacerdotesse si fecero da parte e cedettero il posto ai nuovi sacerdoti. Questi incensavano dei maschili che avevano plasmato l’universo tagliando a pezzi il corpo della creatrice Tiamat oppure masturbandosi, come Atum.
Tan-Tan e Berekhat Ram: centinaia di migliaia di anni
Nonostante non raggiunga un orizzonte cronologico antico come quello interessato dal Makapansgat pebble, anche la statuina di Tan-Tan non scherza. È stata scoperta in Marocco, sulla riva nord del fiume Draa, non troppo distante dalla città omonima. La trovò l’archeologo tedesco Lutz Fiedler nel 1999, a una profondità di 15 metri sotto la superficie di una terrazza naturale. Altezza: 6 cm. Materiale: quarzite. Età: da 500.000 a 300.000 anni fa. Siamo nel periodo dominato dall’Homo erectus.
Di questo piccolo artefatto sappiamo che originariamente era dipinto con ocra rossa. Un elemento importante, perché l’ocra rossa ha rivestito per tutta l’epoca preistorica un carattere sacro, collegato al sangue mestruale e quindi alla vulva e al grembo della donna, culla della vita. Un ulteriore indizio che sembrerebbe confermare le fattezze antropomorfe della minuscola scultura e il suo carattere femminile. Ma Anche in questo caso le opinioni divergono. Alcuni studiosi come l’archeologo Robert Bednarik sono convinti che si tratti della rappresentazione di corpo femminile; altri, come l’antropologo Stanley Ambrose, propendono per uno scherzo della natura, una forma plasmata forse dall’acqua o dal vento che un ominide avrebbe scoperto e poi dipinto di rosso.
Dall’Africa all’Israele. La datazione della “Venere di Berekhat Ram” si aggira intorno ai 300.000 anni fa. È stata scoperta in Israele, nei primi anni Ottanta, sulle alture del Golan ed è probabilmente opera dell’Homo erectus. In questo caso le caratteristiche somatiche sono più chiare e permettono di identificare la scultura con un corpo femminile. La statuetta è stata scoperta nel 1981 dall’archeologa israeliana Naama Goren-Inbar nel cratere di un vulcano in cui oggi si trova un lago. La figurina giaceva fra due strati di basalto. Lo strato superiore è stato datato a 233.000 anni fa, quello inferiore a 470.000.
Le analisi microscopiche eseguite in laboratorio hanno confermato che la statuetta è un manufatto di ominide, e non una pietra plasmata dalla natura. Il sasso è stato intenzionalmente modificato. Questa figurina di tufo rosso misura appena 3,5 centimetri di altezza e 2,1 cm di spessore ed è stata sottoposta ad attenta analisi dall’archeologo e antropologo Francesco d’Errico e dall’antropologa April Nowell che si sono trovati d’accordo nel definire il reperto come forgiato intenzionalmente dalla mano di un ominide. La scultura di Berekhat Ram riveste dunque un’importanza enorme, perché dimostra che già l’Homo erectus aveva la capacità di riconoscere e riprodurre forme umane.
Alcuni utensili litici trovati in loco e appartenenti all’Acheuleano potrebbero essere stati impiegati per la fabbricazione della minuscola Venere di Berekhat Ram. Ovviamente gli utensili venivano usati principalmente per la lavorazione delle pelli o del legno e non è detto che abbiano portato alla produzione della statuetta femminile, afferma l’esperto di arte paleolitica Alexandre Marshack dell’Università di Harvard, il quale ha sottoposto anch’egli la Venere di Berekhat Ram alle lenti del microscopio. Marshack confuta i risultati dei colleghi, propendendo per una forma casuale della pietra, dovuta a un semplice scherzo della natura.
Come vediamo, queste figurine femminili del Paleolitico erano di piccole dimensioni, un leitmotiv che interesserà quasi tutti questi artefatti anche di epoca più tarda. Probabilmente per poterle trasportare più facilmente e tenerle sempre con sé, nella tasca di un abito, in una borsa, nel pugno della mano. Non dimentichiamo che i nostri antenati di quei tempi remoti erano cacciatori raccoglitori, dei nomadi (o seminomadi) che si spostavano continuamente da un luogo all’altro.
L’Homo erectus, scopritore e artista
Due parole sul possibile artista, l’Homo erectus. Colui che scoprì il fuoco. I reperti più antichi di questo ominide risalgono a 1,9 milioni di anni fa, sono stati individuati in diversi giacimenti situati in Africa, Asia ed Europa. Infatti l’Homo erectus fu, per quanto ne sappiamo al momento, la prima specie di ominide che lasciò la culla dell’Africa e si avventurò in nuovi territori diffondendosi in altri continenti. La complessità che accompagna la collocazione dei reperti di questa specie in una categoria ben definita, è ovvia. Soprattutto perché, a prescindere da alcune analogie nella struttura fisica, i diversi tipi di Homo erectus presentano anche delle differenze regionali.
In particolare il tipo asiatico, di cui sono stati trovati un gran numero di resti fossili, ha dimostrato l’esistenza di individui di grandi dimensioni, così come di individui piuttosto piccoli. Caratteristiche costanti dell’Homo erectus sono, tuttavia, il tronco molto robusto, lo scheletro relativamente grande e il cranio dalle ossa particolarmente spesse, con arcata sopraccigliare molto pronunciata e mento sfuggente. L’altezza dei diversi esemplari andava da 1,45m a 1,80 m. Come vediamo, un ambito molto ampio. Come se non bastasse, le eccezioni non mancano e sono di tutto rispetto. Secondo il paleoantropologo Lee R. Berger dell’Università di Witwatersrand (Johannesburg), diversi esemplari di Homo erectus heidelbergensis africano erano veri e propri giganti che superavano i 2,13 m di altezza. Il volume cerebrale si aggirava dai 930 ai 1190 cm cubi. Anche per quanto riguarda le dimensioni cerebrali non mancano le eccezioni, come l’Homo erectus heidelbergensis di Atapuerca (Spagna) che, con i suoi 1116 – 1450 cm cubi, vanta un volume cerebrale leggermente più piccolo di quello del Neanderthal e dell’uomo anatomicamente moderno.
Generalmente il cranio dell’Homo erectus era abbastanza grande e il bacino degli individui di sesso femminile si presentava, in base all’esame dei resti fossili della specie, relativamente largo. Tale peculiarità suggeriscono che la testa dell’Homo erectus fosse abbastanza voluminosa già al momento della nascita. Di conseguenza la fase dell’infanzia, durante la quale il cervello cresce sino a raggiungere le dimensioni definitive, era molto più breve di quella dell’Homo sapiens. La tendenza evoluzionaria che portò a un prolungamento dell’infanzia, andava di pari passo con la crescita più lenta del cervello. Se il neonato di Homo erectus alla nascita possedeva già il 35% del volume cerebrale di un adulto, il neonato dell’uomo anatomicamente moderno ne possiede soltanto il 28%.
Come suggerisce il suo nome “erectus”, questo ominide si muoveva in posizione eretta, avanzando su due gambe, come il Neanderthal e il Sapiens. E, come loro, era un cacciatore raccoglitore. Fra il 1994 e il 1998, nel sito tedesco di Schöningen (Germania), sono state portate alla luce otto lance di legno, di cui sette da tiro. Erano state fabbricate dall’Homo erectus heidelbergensis e si trovavano sotto terra, in un’area occupata da una miniera di lignite a cielo aperto. Insieme con le lance, l’archeologo Hartmut Thieme ha scoperto anche 1500 artefatti di pietra, una lancia da mischia, un boomerang, gli scheletri di 25 cavalli selvatici, ossa di bovini, cervi, elefanti della specie elephas antiquus, bisonti e rinoceronti preistorici.
Homo erectus, Homo faber
Dobbiamo infatti pensare che la situazione geoclimatica di quest’area all’epoca dell’Homo erectus era del tutto differente. Il clima mite favoriva la presenza di animali come rinoceronti e ippopotami, la zona si trovava in riva a un lago, ricoperta da un fitto canneto. Thieme pensa che un gruppo di cacciatori, nascosto dalla vegetazione, si sia trovato nella posizione ideale per cacciare dei cavalli selvatici con le sue lance da tiro. E siccome tra le ossa del bottino di caccia si trovano anche i resti fossili di giovani cervi, l’archeologo ritiene che la caccia sia avvenuta in autunno. Le lance sarebbero state abbandonate in loco, insieme alle ossa di animali, forse in seguito alla celebrazione di un rito propiziatorio.
Ma la cosa più stupefacente è la qualità di queste lance, che non ha nulla da invidiare a un moderno giavellotto utilizzato nelle gare sportive. Queste armi sono state ricostruite dagli archeologi e alcuni atleti ne hanno sperimentato la potenza di gittata. Hanno raggiunto una distanza di ben 70 metri. Se pensiamo che l’attuale record mondiale di tiro al giavellotto è di 98,48 m per gli uomini e 72,28 m per le donne, ci rendiamo conto che la potenza di tiro delle lance di Schöningen non era cosa da poco. Questi dati implicano conseguenze di estrema importanza.
Se l’Homo erectus di Schöningen era in grado di fabbricare armi simili e di cacciare in gruppo, ciò significa che possedeva delle capacità cognitive di alto livello e poteva comunicare con una sorta di linguaggio proprio. Queste prerogative gli permettevano la progettazione di azioni future e la messa in opera di strategie di caccia in gruppo. Sono delle capacità che fino a poco tempo fa venivano negate non solo a lui, ma anche all’uomo di Neanderthal, il suo successore nella scala dell’evoluzione umana, ed erano attribuite esclusivamente all’Homo sapiens.
Infatti il ricercatore William Calvin dell’Università di Seattle ha analizzato l’evoluzione dell’azione del lancio nel comportamento umano. Per tirare una lancia, non è necessaria solamente una struttura anatomica che permetta l’esecuzione di certi movimenti, ma anche una coordinazione molto complessa dei movimenti stessi, che dipende da precise aree del cervello. Queste zone sono responsabili per il pensiero, la progettazione e la parola. Per tal motivo il tiro mirato di un oggetto, eseguito con forza e precisione, risulta difficile ai primati, mentre i primi ominidi erano in grado di effettuarlo con grande abilità.
Un ritratto appena abbozzato. Poco sappiamo. Questi erano i nostri lontanissimi antenati che, forse, hanno fabbricato le due statuette femminili di Berekhat Ram e Tan-Tan. Dall’evoluzione dell’Homo erectus africano ebbe origine, circa 200.000 anni fa in Africa, l’Homo sapiens. Un individuo estremamente sociale, abile e ben organizzato che, poco a poco, finì per occupare il globo terrestre sopravvivendo a tutte le altre specie di ominidi che si estinsero senza lasciare tracce evidenti. Tutti tranne uno: l’uomo di Neanderthal. È scomparso anche lui, è vero, ma dall’1% al 4% del suo patrimonio genetico è venuto ad arricchire il nostro genoma di uomini anatomicamente moderni che popolano l’Europa.
Tra l’altro la Venere di Tan Tan si colloca nello stesso arco cronologico del contesto di Jebel Irhoud (350.000 – 280.000 anni fa) dove sono comparsi i più antichi resti di Homo Sapiens Arcaico… Anche il più antico aplogruppo cromosomale, recentemente scoperto, l’A00, risalirebbe più o meno alla stessa epoca (588.000 – 270.000 anni fa)!!
Interessante osservazione, Marco!