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Umberto Eco gli ha reso onore nel suo romanzo forse più bello: Il nome della rosa. Il perspicace Guglielmo da Baskerville e il giovanissimo allievo Adso da Melk, che lo affianca nella grande avventura sullo sfondo di una labirintica biblioteca abbaziale e una serie di monaci assassinati, altri non sono che un omaggio al detective londinese Sherlock Holmes e al suo inseparabile aiutante, il dottor John Watson.

Sir Arthur Conan Doyle, illustrazione di Mortimer Menpes, 1901. © Wellcome Collection CC-BY-4.0

Conan Doyle e il gioco degli specchi

Creature ideate da Sir Arthur Conan Doyle, prolifero scrittore scozzese dai baffoni ottocenteschi. Prova ne sia che in una delle tante avventure Sherlock Holmes si trova a fronteggiare il “mastino dei Baskerville”, inoltre la quasi omofonia del nome “Adso” e “Watson” non è di certo casuale. Ma Adso e Watson hanno anche qualcos’altro in comune: entrambi raccontano la storia di un singolare amico criminalista per passione. Sono protagonisti e voci fuori campo allo stesso tempo, narratori e narrati, come in uno di quei giochi di specchi che tanto amava Conan Doyle.

Del resto lo scrittore, nato a Edinburgh nel 1859 da una famiglia benestante di piccola nobiltà terriera, prima di iniziare a raccontare le storie di Sherlock Holmes era passato egli stesso da un luogo all’altro, da un viaggio all’altro, da un’avventura all’altra, dato che aveva esercitato per alcuni anni la professione di medico di bordo su navi che l’avevano portato sino all’Africa. Più tardi aveva aperto un ambulatorio medico a Portsmouth che abbandonò nel 1890 per stabilirsi a Londra. Fu nella capitale inglese che mise temporaneamente da parte la classica valigetta medica e si dedicò del tutto alla scrittura. Ma quella valigetta di cuoio continuava ad accompagnarlo sulla carta, stretta nel pugno del dottor Watson, il suo alter ego letterario.

La prima edizione londinese di narrazioni incentrate su Sherlock Holmes, „Uno studio in rosso“, del 1 gennaio 1888

Perché già tre anni prima di raggiungere la capitale inglese il romanziere aveva scritto il primo racconto che parlava di Sherlock Holmes “Uno studio in rosso”. A quell’epoca Doyle aveva 28 anni e tuttavia già un notevole bagaglio di esperienze alle spalle. Non era di certo abbastanza. La sua personalità vivace e curiosa lo incitava a cercare sempre nuove sfide. Di conseguenza, nell’anno 1893, il medico narratore decise di far morire Sherlock Holmes per poter scrivere su di altri soggetti. Il detective dell’impossibile e il suo rivale, il crudele professor Moriarty, precipitarono entrambi nelle cascate di Reichenbach, in Svizzera, e il dottor Watson confermò la morte dell’amico Holmes. Nuovi personaggi emergevano dalle fantasie dell’autore scozzese. Era davvero un addio? Sherlock era sparito per sempre?

Le fate di Cottingley e le catene di Houdini

Questa decisione aveva forse a che fare con la nomina di Arthur Conan Doyle a “maestro” in una loggia massonica di Portsmouth? In ogni caso, l’eclettico Doyle si dedicò per alcuni anni ad altri romanzi avventurosi, storie ammantate di un avvenirismo profetico, intrecciate ad un’aura di sottile misticismo, che lo appassionarono molto e tuttavia non riscontrarono pubblicamente il successo delle vicende poliziesche di Sherlock Holmes. Nel frattempo Doyle si lanciava in imprese sportive, come la traversata del passo alpino Maienfelder Furgga sugli sci in una Svizzera innevata, a più di 2400 metri di altezza. Successivamente riprese la sua attività medica questa volta in Sudafrica, si immerse nella mischia sanguinosa della seconda guerra boera. Il risultato fu un libro incentrato sul conflitto armato (The Great Boer War) che gli fruttò il titolo di “sir”.

Nel 1900 Doyle si ammalò di tifo e andò a soggiornare a Norfolk. Qui conobbe un uomo del Devonshire che gli raccontò aneddoti e leggende originari della sua regione, storie di spiriti inquieti e cani selvaggi nascosti nelle fitte nebbie, tra i menhir e le rovine antiche di Dartmoor. Fu così che Doyle decise di scrivere “Il mastino dei Baskerville”. Per il nuovo racconto poliziesco aveva bisogno di un personaggio dalla mente acuta, un re della criminologia. Si vide costretto a ricorrere al vecchio eroe londinese e il maestro dell’analisi deduttiva Sherlock Holmes resuscitava così dal regno dei morti in tutto il suo splendore, sempre accompagnato dal fedele dottor Watson.

Conan Doyle, prolifero e irrequieto autore, si gettava a capofitto nelle nobili cause. Non perse l’occasione di denunciare aspramente i crimini commessi dallo psicopatico regnante belga Leopoldo II nel Congo e più tardi non avrebbe esitato a criticare il comportamento del governo tedesco nel quadro nefasto della prima guerra. Ma un dramma segnò d’improvviso la sua vita: la morte del figlio Kingsley, colpito dalla febbre spagnola. Da questo momento quella tendenza al misticismo, che già era timidamente emersa nelle storie poliziesche di Sherlock Holmes, prese sempre più il sopravvento. Doyle partecipava a sedute spiritiche e i rituali magici, l’idea dell’esistenza di poteri sovrannaturali e di un altro mondo invisibile colpivano la sua immaginazione.

L’illusionista Harry Houdini, circa 1889

Sicuramente i contatti dello scrittore con la società segreta Hermetic Order of the Golden Dawn, i cui membri praticavano la cabala e altre scienze occulte, ebbe un forte influsso sul suo pensiero, sulle sue opere e su tutta la sua vita.

Il signore della deduzione e della logica amava dunque perdersi di quando in quando nel mondo dell’ignoto. Conan Doyle fu addirittura coinvolto nell’affare eclatante e scurrile delle “fate di Cottingley”. Nel 1917 due giovanissime ragazze inglesi, Elsie e Frances, avevano scattato delle fotografie di “fate” che sostenevano di aver incontrato nella campagna. Il caso ebbe una grande risonanza mediatica e scatenò subito accese diatribe tra gli esperti del paranormale. C’era chi dubitava dell’autenticità delle fotografie e chi invece ci credeva. Tra gli ultimi figurava Conan Doyle.

Nota è anche la controversia dello scrittore con il celebre “mago delle catene” Harry Houdini. Mentre l’abile illusionista di origini ungheresi ammetteva di avvalersi di diversi trucchi durante le sue performance magiche, Doyle era convinto che Houdini usufruisse anche di poteri sovrannaturali. Le posizioni contrarie dello scrittore e dell’illusionista finirono per metter fine a quella che era stata un’amicizia.

Il vero Sherlock Holmes

Sir Arthur Conan Doyle, oggi considerato il creatore del romanzo poliziesco deduttivo e, insieme con Edgar Allan Poe, il papa del fantastico, morì nel 1930 nella sua bella casa immersa nella campagna del Sussex a causa di un infarto. Dopo due matrimoni, numerosi figli e una vita vissuta fino in fondo. Tre anni dopo aver pubblicato l’ultima raccolta di racconti sul detective che l’aveva reso famoso, “Il taccuino di Sherlock Holmes”. Dunque la morte prematura dell’eroe nel precipizio delle cascate di Reichenbach non era stata un addio. Sherlock lo accompagnò fino all’ultimo.

Sherlock Holmes, illustrazione di Sidney Paget, 1891

Del resto lo amiamo tutti. Sherlock Holmes ci affascina tutt’oggi per la sua modernità. L’analisi deduttiva degli avvenimenti e le ispezioni sui luoghi del delitto, così come i diversi metodi d’indagine utilizzati dal detective londinese erano, al tempo di Arthur Conan Doyle, estremamente moderni, ad esempio l’uso del gesso per conservare le impronte delle scarpe, oppure l’analisi dei mozziconi di sigarette. Il carattere complesso del detective che faceva uso di droghe, suonava il violino, citava autori antichi e possedeva un talento analitico innato, ha spinto diversi autori a cercare di capire chi si nascondesse dietro la figura romanzesca. Chi servì da modello allo scrittore Conan Doyle? Chi era il Sherlock Holmes reale, quello che girava per le vie di Londra?

Di primo acchito, molti hanno creduto di riconoscere invece il pendant reale del dottor Watson: lo stesso Conan Doyle. Infatti l’autore aveva una formazione medica e, come il romanzesco Watson, aveva anche conosciuto gli orrori della guerra. Watson diceva di aver combattuto nella guerra anglo-afghana del 1878-1880, Doyle partecipò a quella boera del 1899-1902. Amico leale e personaggio chiaro, facilmente leggibile, con i piedi ben piantati per terra, il dottor Watson era coraggioso e sanguigno, piuttosto lontano dagli universi onirici dettati dalla consumazione di droghe e dagli attimi di chiaroveggenza spettacolare in cui si muoveva il freddo Holmes. Questa tesi era sostenuta anche dal drammaturgo George Bernard Shaw che riconosceva in Holmes un tossicodipendente dal carattere insopportabile e nel dottor Watson una persona “per bene”.

Di diversa opinione era invece uno dei figli di Conan Doyle: Adrian. Questi affermò fino all’ultimo che Sherlock Holmes rispecchiava diversi elementi tipici del carattere di suo padre: l’estremo disordine in casa, il fatto di lavorare preferibilmente in vestaglia e, last but not least, il fatto che entrambi avessero antenati di nazionalità francese. La voce di Adrian ha l’autorità di chi conosceva Doyle intimamente. Dunque l’enigma potrebbe essere risolto? Sherlock Holmes era semplicemente una sorta di Conan Doyle letterario? Sarebbe troppo facile. Niente è così semplice ed esplicito nelle vicende che riguardano Sherlock Holmes, e il suo autore Conan Doyle sembra essere stato anch’egli un mistero nei tanti misteri.

La soluzione di Harrison

Lo scrittore inglese Michael Harrison trovò alla fine degli anni Cinquanta un’altra possibilità. Secondo lui, Sherlock Holmes altri non era che la sintesi di tre fattori. Innanzitutto la grande ammirazione di Conan Doyle per lo scrittore americano Edgar Allan Poe, signore indiscusso del giallo psicologico e del romanzo dell’orrore, poi quella per il chirurgo Joseph Bell, e infine quella per il detective Wendel Scherer. Ma di chi stiamo parlando? Se Edgar Allan Poe è noto a tutti, meno conosciuti sono invece gli altri due personaggi.

Sherlock Holmes e il dottor John Watson, Sidney Paget ,1892

Il dottor Joseph Bell era un chirurgo scozzese molto famoso ai tempi di Doyle che si era fatto un nome soprattutto come pioniere nel campo della scienza forense, vale a dire l’applicazione delle tecniche e metodologie scientifiche alle indagini giudiziarie. Bell fu dal 1874 al 1901 professore all’università di medicina di Edinburgh, e Doyle ebbe modo di conoscerlo personalmente nel 1877 e di lavorare come suo assistente al Royal Infirmary di Edinburgh. Osservatore attento e molto apprezzato, il dottor Bell fu interpellato anche da Scotland Yard in occasione dei delitti del celebre Jack the Ripper che sconvolgevano Londra proprio in quegli anni. Se Doyle gli era stato così vicino, aveva sicuramente avuto la possibilità di seguire le sue metodologie di indagine che avrebbe poi attribuito a Sherlock Holmes nei suoi racconti e romanzi.

Invece il metodo deduttivo di Sherlock Holmes, il suo talento di detective e la passione per l’avventura rispecchierebbero il carattere di Wendel Scherer, il criminalista di origini tedesche che nel 1881 fece parlare di sé tutta Londra per il suo intervento in un caso poliziesco, il “St Luke’s Mistery”. Questo fatto era avvenuto nella parrocchia di St Luke’s e nella Baker Street, un nome reso famoso da Conan Doyle perché legato all’indirizzo londinese di Sherlock Holmes: il detective abitava in Baker Street 221. Ai tempi di Wendel Scherer la misteriosa sparizione di un fornaio aveva riscontrato un certo clamore mediatico, soprattutto perché la moglie del fornaio intratteneva una relazione amorosa con un uomo alle dipendenze del marito. In mancanza del cadavere, il detective Scherer non riuscì a dimostrare che i due avevano fatto sparire il fornaio uccidendolo e tuttavia riuscì a mandarli in prigione dimostrando, con il metodo dell’analisi deduttiva, una serie di crimini accessori che i due avevano commesso nel contesto del delitto. La catena indiziaria realizzata da Scherer era perfetta e lo rese celebre.

La leggendaria Baker Street numero 221 b, l’indirizzo londinese di Sherlock Holmes © Thirsgaard Rasmussen CC BY-SA 2.0

Michael Harrison aggiunge poi un altro elemento di conferma alla sua tesi. Conan Doyle aveva trascorso un periodo di studio in Germania e, conoscendo la lingua tedesca, sapeva bene che il termine “Scherer” era una forma antica del termine “Haarschneider” che significa “barbiere”: nello slang inglese di allora anche “Schearlocks” significava barbiere. Dunque il metodo d’indagine di Wendel Scherer, il nome della Baker Street e il nome di Scherer stesso: tutto porterebbe a Sherlock Holmes. La teoria di Harrison è piuttosto accattivante. Forse Sherlock Holmes era davvero una sintesi di questi tre elementi e il dottor Watson un’eco discreta della presenza di sir Conan Doyle tra le pagine di mirabolanti avventure.

Resta da dire che lo stesso autore Michael Harrison (1907-1991) sembra uscito da un romanzo di Doyle. Il suo vero nome era Maurice Desmond Rohan. Un uomo che lavorò alcuni anni per i servizi segreti del Regno Unito. Harrison scrisse diversi romanzi di carattere poliziesco e fantastico e, a partire dagli anni Cinquanta, anche alcune opere incentrate su Sherlock Holmes e il suo mondo. Era profondamente affascinato dal leggendario detective londinese. Nel 1964 Michael Harrison divenne membro dell’associazione americana “The Baker Street Irregulars” fondata nel 1934 da un gruppo di ammiratori di Sherlock Holmes ed era inoltre membro della “Sherlock Holmes Society di Londra” che aprì le sue porte nel 1951.