Il fascino dei re taumaturghi

 

 

Merovingi. Già il nome suggerisce un’atmosfera favolosa. I re che fecero la Francia, come li chiamò Georges Bordonove. I re taumaturghi, come li definì Marc Bloch. Oppure solo dei re fannulloni? Principi carismatici dai lunghi capelli biondi? Fu il cronista Gregorio di Tour a usare per primo, nella sua opera “Historia Francorum”, il termine di reges criniti: re dai lunghi capelli. E fu il solo a farlo.

Da allora la definizione ha causato fiumi d’inchiostro, perché proprio in questa parola criniti pare celarsi la peculiarità della dinastia. Eppure lo storico Teofane Confessore nella sua “Cronaca” interpreta il termine crinitus in tutt’altro modo. A suo avviso significa che i corpi dei re Merovingi erano interamente ricoperti da… setole di maiale. Dalle stelle alle stalle, è il caso di dirlo. Un’immagine poco edificante. A tali osservazioni si unisce poi quella dell’anonimo dello scritto “Chronicarium quae dicuntur Fredegarii”, il quale spiega che il capostipite della dinastia merovingia, il mitico Mérovée, era addirittura un mostro marino unitosi carnalmente ad una regina. Forse lo strano attributo delle setole di maiale veniva dal suo patrimonio genetico?

Scherzi e setole a parte, gli storici del passato sembrano essere stati tutti d’accordo su di un fatto: i sovrani di questa dinastia franca che regnò in alcuni territori di Francia settentrionale, Germania e Belgio dal V all’VIII secolo d. C., portavano i capelli lunghi. Jules Michelet scriveva:

“Questo potere del re era confermato dai lunghi capelli che solitamente ornano le teste degli eroi; insieme con i suoi capelli Sansone perde anche la sua forza ma, non appena quelli gli ricrescono, è in grado di distruggere un tempio. Era un uso dei re franchi di non tagliar mai la chioma e lasciarla intatta così com’era nell’infanzia.(…) Presso le tribù germaniche gli uomini liberi non portavano nessun altro segno esteriore della loro condizione privilegiata, all’infuori dei lunghi capelli.”(J. Michelet “Origine du droit francais cherchées dans les symboles et formules du droit universel“, pag. 113)

Regno dei Merovingi in Europa

Europa al tempo dei Merovingi. Nel settentrione sono visibili i regni merovingi di Neustria e Austrasia.

Insomma, presso le tribù germaniche la lunga chioma era un segno di distinzione fra l’uomo libero e lo schiavo. Ma allora, se tutti portavano i capelli lunghi, che differenza c’era fra un uomo del popolo e il re? Qual era il segno distintivo del sovrano? Secondo alcuni storici, solo il re aveva il privilegio di portare i capelli sparsi sulle spalle, mentre l’uomo comune lasciava i capelli di una certa lunghezza sulla parte anteriore della testa e si radeva invece sulla parte posteriore. Un uso che mi pare alquanto bizzarro.

Marc Bloch la vede diversamente e afferma che se i re portavano la chioma lunga fin sulle spalle, gli altri uomini non si radevano affatto ma semplicemente… si tagliavano i capelli. Che dicono i reperti archeologici? Nella tomba di re Childerico I, in cui sono stati trovati i resti del sovrano, c’erano anche i suoi lunghi capelli. L’archeologia conferma, quindi, la lunga chioma dei re. E i comuni mortali? Anche nelle tombe di nobili e soldati sono stati trovati pettini d’avorio, di legno e di osso con cui questi si puntavano i capelli sul capo. Dunque anche tali classi portavano i capelli lunghi.

Del popolo, invece, nulla sappiamo. Forse gli uomini liberi li tagliavano non appena avessero raggiunto una certa lunghezza, mentre agli schiavi venivano rasi a zero in segno di disprezzo. Questa sarebbe una possibilità da non escludersi. Di certo possiamo dire che i capelli erano da sempre, presso le tribù germaniche e quindi anche presso i Merovingi, un segno di virilità. Dunque un re doveva essere crinitus per forza. Altrimenti sarebbe stato disonorato e sbeffeggiato dal suo popolo.

Gli scalpi dei Merovingi

Di qui il costume davvero barbaro di scalpare il nemico. Ne parla lo storico Jean Hoyoux nel suo articolo “Reges criniti. Chevelures, tonsures et scalps chez les Mérovingiens” scritto per la rivista scientifica Revue belge de philology et d’histoire. Quest’uso lo conosciamo dai film western, praticato dagli Indiani d’America sugli Yankee indesiderati. Poco invece si parla del fatto che lo scalpo rappresentasse un trofeo di guerra germanico nonché una misura punitiva anche presso i Merovingi. Fu tranquillamente riportato pure nei codici legislativi dei Visigoti.

 

Soldato al servizio dell'imperatore Giustiniano. I capelli lunghi denotano, probabilmente, un soldato franco.Dittico Barberini, VI secolo. Museo del Louvre.

Soldato al servizio dell’imperatore Giustiniano. I capelli lunghi denotano, probabilmente, un soldato franco. Dittico Barberini, VI secolo. Museo del Louvre.

E così vengono a galla gli usi crudeli di queste dinastie franche che oggi, attraverso il filtro benefico di miti, romanzi e film hollywoodiani, sono innalzate a ceppi sacri di creature sovrannaturali, a metà strada fra gli uomini e gli angeli, come disse un giorno un letterato secentesco parlando dei re di Francia. In realtà questi angeli scalpavano le loro vittime, fossero queste nemici di guerra o individui che si erano ribellati al loro volere.

E tale fu il destino di Settimia, governante dei figli di Childeberto e accusata di aver offeso la regina, della vergine Chrodilde che si ribellò contro l’abbadessa del convento in cui era rinchiusa, del giovane Gundovald che affermò di essere figlio di re, e di molti altri infelici, sia uomini che donne.

Ma adesso che abbiamo appurato almeno approssimativamente la lunghezza della chioma regale, vediamo altre caratteristiche dei re merovingi. Per esempio, quelle magiche. I re taumaturghi, li ha chiamati lo storico Marc Bloch. Perché? Gli venivano attribuiti poteri magici. E da dove derivava questa credenza? Di certo era strettamente connessa all’idea di una sovranità sacra.

È interessante il fatto che il potere di guarire le malattie per semplice apposizione delle mani fu una prerogativa dei re francesi e inglesi fino al XVI secolo. Nel corso di una cerimonia ufficiale, i sovrani uscivano sulla strada e toccavano i malati di scrofola, i quali erano convinti, così, di poter guarire dalla malattia. Di certo l’elemento psicologico aveva un ruolo predominante nel processo di guarigione, questo è ovvio. Tuttavia il pio Guiberto, abate di Nougent-sous-Coucy (XII secolo), scrisse con profonda ammirazione e commovente ingenuità nell’opera “De Pignoribus Sanctorum”:

„Non abbiamo forse visto come il nostro signore re Luigi ha compiuto il solito miracolo? Io ho visto con i miei occhi arrivare a folle i malati che erano colpiti dalla scrofola sul collo o su altre parti del corpo per farsi toccare da lui e ricevere da lui la benedizione. Io stavo lì, molto vicino a lui, e tentavo addirittura di spingerli indietro. Ma il re, con la sua innata generosità, li trascinava verso di sé con la mano insigne e li benediceva in grande modestia. Suo padre Filippo aveva fatto anch’egli uso di questo potere miracoloso con diligenza, eppure un giorno lo perse a causa di peccati a me sconosciuti di cui si era fatto carico.”

Stele che raffigura il martirio di San Dagoberto. Cripta della chiesa di San Dagoberto, Stenay, Francia settentrionale.

Stele che raffigura il martirio di San Dagoberto. Cripta della chiesa di San Dagoberto, Stenay, Francia settentrionale.

Torniamo alla leggenda. Abbiamo visto che la Cronaca di Fredegario (VII secolo) racconta di una regina, moglie di Clodione re dei Franchi, che fu insidiata da un mostro marino e in seguito a questa unione diede alla luce Meroveo, capostipite della dinastia. Il medievista Karl Hauck vede in questa leggenda una rappresentazione della ierogamia, l’unione sacra della divinità con un essere umano, e quindi l’elemento principe che conferma la sacralità della stirpe. Ed è possibile che alla sua base esistesse un’antica leggenda germanica.

Lo storico Marc Bloch aggiunge al particolare della lunga chioma dei re quello leggendario della macchia a forma di croce che i sovrani merovingi avrebbero avuto sin dalla nascita:

“Essi avevano sulla pelle, di sovente all’altezza del cuore, una macchia rossa a forma di croce.”( Marc Bloch, Les rois thaumaturges, p. 251)

Una leggenda che, di primo acchito, fa sorridere. La forma della croce fa poi pensare a un simbolo cristiano. Ma non è esattamente così. Dietro quest’informazione si nasconde qualcos’altro. Per capire di che si tratta, dobbiamo ricorrere alla linguistica.

Merovingi e Cavaliere del cigno

Il termine segno, in francese signe, viene pronunciato allo stesso modo di cygne, che significa cigno. Le tradizioni segrete amano le leggende e i giochi di parole che spesso nascondono un significato molto più profondo di quanto non si creda. Nel basso Medioevo prese a diffondersi nell’area franco-belga la misteriosa leggenda del Cavaliere del cigno. Un elemento che fu inserito dal poeta tedesco Wolfram von Eschenbach nella sua opera “Parzival” (XIII secolo). Lohengrin, il figlio di Parzival, era appunto il Cavaliere del cigno.

Alla fine dell’epos di Wolfram e ubbidendo al volere della famiglia di Parzival (e quindi del Graal), Lohengrin abbandona il castello di Munsalvaesche e parte per Anversa, città belga in cui prenderà in moglie la nobile Elsa di Brabante. Ma non appena si trova nella situazione di poter chiedere la sua mano, Lohengrin pone subito ad Elsa le proprie condizioni: la sposerà soltanto se lei non gli chiederà mai il suo nome o la sua provenienza.

La nobile accetta e i due giovani coniugi vivono per alcuni anni sereni, hanno dei figli. Sembra che ogni cosa vada per il meglio. Un giorno però Elsa decide di conoscere l’identità del padre dei suoi figli e pretende che Lohengrin le sveli il suo segreto. A quel punto il patto è infranto, Lohengrin deve abbandonare per sempre la sposa.  Se ne andrà in un’imbarcazione trainata da un cigno, così com’era arrivato. Ad Elsa lascerà però tre doni: un anello, un corno, una spada.

Anello-sigillo di re Childerico I. Da notare il ritratto del sovrano con barba e i tipici capelli lunghi.

Anello-sigillo di re Childerico I. Da notare il ritratto del sovrano con i tipici capelli lunghi.

Così la leggenda riportata dal poeta del Graal. Il nome della sposa di Lohengrin è Elsa di Brabante: è probabile che Wolfram intendesse confermare la discendenza della casa di Brabante dal mitico Cavaliere del cigno e quindi dalla famiglia del Graal. Inoltre il nome Lohengrin  deriva da “lorrain Garin”, che significa Garin di Lorena: un nesso fra l’eroe del Graal e la terra di Lorena, culla della famiglia dei Buglione (Bouillon). Sia i Buglione che i Brabante avevano origini franche, i nomi di entrambe le famiglie ricorrono nelle leggende dei Cavalieri del Cigno e sugli stemmi di entrambe le famiglie appare il cigno. Evidentemente era un simbolo che voleva richiamare l’antico segno dei re Merovingi, quello che confermava la sacralità del loro diritto al trono. La croce di color rosso fuoco.

L’aura di sacralità che circonda la memoria di questi re criniti e contrasta in modo stridente con la crudeltà e i misfatti perpetrati dagli stessi e dai componenti delle loro famiglie durante il periodo del regno merovingio, ancora oggi affascina la Francia. Forse per questo il moderno Priorato di Sion ha tirato in ballo i Merovingi nei Dossiers Sécrets (la loro raccolta di scritti esoterici) depositati alla Biblioteca Nazionale di Parigi.

E forse per lo stesso motivo anche lo scrittore del Priorato Gérard de Sède, narratore dal sapore sulfureo, amava citare i re perduti nei suoi scritti discussi. Ne parla soprattutto uno di questi libri dal titolo “La race fabuleuse”. Vale la pena ricordare qualche brano particolarmente affascinante. A pagina 49 de Sède racconta dell’incredibile ritrovamento del tesoro di Childerico nella cripta della chiesa Saint-Brice, a Tournai. De Sède scrive:

„(…) l’oggetto più strano che fu scoperto nella tomba, era una sfera di cristallo di 4 centimetri di diametro. Le antiche cronache affermano che il figlio di Meroveo, iniziato dalla sua sposa Basine alle scienze segrete, fosse in grado di prevedere il futuro e che avesse appreso in sogno delle disgrazie future e del destino tumultuoso della sua stirpe. La scoperta di una sfera di cristallo, strumento dei chiaroveggenti per eccellenza, sembra attribuire un certo credito a questa leggenda.”

Mentre, a pagina 159, lo scrittore racconta di essere venuto in possesso di un vecchio volume del 1702 in cui veniva descritta la scoperta di una necropoli di re merovingi nella cripta dell’antica chiesa di San Dagoberto a Stenay. Le stanze sotterranee della chiesa scomparvero in seguito alle operazioni di interramento e modernizzazione della cittadella di Stenay eseguite nel XVII secolo, e sono state recentemente riportate alla luce. De Sède scrive:

“C’era anche una camera accuratamente murata da tutte le parti. Dopo averla aperta, abbiamo scorto un tavolo di pietra nel mezzo della stanza segreta e tre troni fatti dello stesso materiale che lo circondavano, sui quali erano assisi tre corpi morti. Questi divennero subito polvere, a parte le ossa, non appena l’aria penetrò nel sepolcro straordinario. A una certa distanza scoprimmo un’altra tomba la cui lunghezza così come la lunghezza delle ossa contenute era talmente smisurata, da far credere che fosse quella di un gigante.(…) In quell’occasione scoprimmo molte altre cose altrettanto singolari che però non riporto qui per non annoiare il lettore.”

 Così ci lascia il grande narratore, come suo costume, con un sapore di mistero sulle labbra. E in effetti una sfera di cristallo di rocca fu scoperta veramente nel 1653, a Saint-Brice, nella tomba di Childerico I. Sappiamo inoltre che la città di Stenay fu la residenza dell’ultimo re merovingio Dagoberto II. La chiesa di San Dagoberto esiste veramente, la cripta anche. E i tre sovrani mummificati? I defunti re assisi sui troni intorno al tavolo di pietra? Coloro che divennero cenere non appena la cripta fu aperta e il segreto rivelato? E il sepolcro del gigante? Domande senza risposta. Una fine che sarebbe piaciuta a Gérard de Sède.

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