In un ducato come la Repubblica di Venezia, tutto immerso nel periodo d’oro del suo splendore rinascimentale, quando le opere di pittori come Giorgione di Castelfranco e Tiziano Vecellio andavano a ruba e i potenti d’Europa facevano a gara per impossessarsene se pure a caro prezzo, quando le navi dei patrizi solcavano i mari dal Levante alle Fiandre assicurando alla città cospicui proventi commerciali, l’esibizione di ricchezza era d’obbligo. Rientrava nell’ottica della Signoria che intendeva dimostrare al mondo intero, senza ombra di dubbio, la potenza della Serenissima. E quale occasione migliore se non la celebrazione delle feste cittadine?
I grandi organizzatori: le compagnie della Calza
Chi pensa che i nostri antenati veneziani del Cinquecento si divertissero poco e lavorassero molto più di noi, sbaglia di grosso. Il lavoro era regolato in base all’ora solare annunciata dal suono delle campane, chi lavorava più del dovuto non era visto di buon occhio. Poi, al di fuori dall’orario di lavoro, c’erano le feste. Tante feste. Nella Venezia rinascimentale l’anno era costellato di feste, a partire da quelle del Carnevale e delle Marie (2 febbraio), per passare poi alla festa di San Marco patrono della città (25 aprile) e a quella di San Vito in memoria della congiura di Baiamonte Tiepolo sventata nel 1310, alla grande festa dell’Ascensione (festa della Sensa in dialetto veneto) che celebrava lo sposalizio del Doge con il mare e aveva luogo nel mese di maggio, alla festa religiosa del Redentore in luglio e all’allegra festa dei meloni nel mese di agosto, per finire con quella del ceppo di Natale nell’ultimo mese dell’anno.
Ma le ricorrenze sopra citate erano soltanto le più importanti. I veneziani avevano l’opportunità di divertirsi anche grazie ad altre solennità minori che, per la gran pompa di processioni e banchetti, impressionavano i ricchi forestieri e assecondavano il gusto del popolo. E poiché la Repubblica di Venezia si vantava, a buon diritto, di essere governata in modo ordinato e pacifico, e dato che la città stessa in quel periodo era eccezionalmente popolosa (alcuni cronisti hanno tramandato, per Venezia e isole, la cifra di ben 300.000 anime), la celebrazione serena e pacifica di tali festività non sarebbe stata possibile senza un’efficiente lavoro preparatorio organizzato da determinate istituzioni. Le loro tracce nella documentazione storica iniziano ad apparire nella seconda metà del XV secolo, ma si ritiene che operassero già prima.
Erano gruppi di giovani patrizi benestanti, le cosiddette Compagnie della Calza. Queste compagnie avevano veri e propri statuti che conservavano nei loro archivi. Però, a mano a mano che una compagnia terminava le sue azioni e perdeva quindi la ragion d’essere, il relativo archivio andava disperso. Ce ne sono pervenuti tre che, unitamente a qualche notizia ricavata dalle cronache dello storico Marin Sanudo e a qualche memoria epigrafica, ci forniscono alcune informazioni sulla loro struttura e sul loro operato: lo statuto dei Modesti, quello dei Sempiterni e quello degli Accesi. Ma tanti altri nomi appaiono qua e là, come un fil rouge, in brevi menzioni di cronisti e letterati: Reali, Potenti, Trionfanti, Immortali…
I primi accenni sicuri risalgono all’anno 1487, gli ultimi al 1562. Si pensa però che le origini siano da collocarsi almeno all’inizio del 1400. Inizialmente erano dette “Compagnie di giovani”, ma il popolo, probabilmente affascinato dal particolare che contraddistingueva i membri di tali gruppi, vale a dire una calza ricamata o di diverso colore, iniziò a chiamarli “quelli della calza” o “i compagni della calza”. Ed ecco spiegata l’origine del nome. Va detto che in ogni caso queste compagnie, che organizzavano non soltanto feste pubbliche ma anche feste private nei palazzi nobiliari, ebbero il merito di diffondere a Venezia l’arte della commedia e del teatro avulso dalle rappresentazioni religiose, un genere che avrebbe entusiasmato i veneziani per secoli.
Non di rado i Compagni della Calza, patrizi facoltosi, finanziavano i divertimenti anche di propria tasca. Per esempio, i loro banchetti di nozze. Sappiamo che quando, nell’anno 1508, un membro degli Eterni tentò di evitare tale spesa forse troppo ingente, i suoi compagni lo costrinsero a farla. E tuttavia, poiché il banchetto dell’amico non rispecchiò il lusso d’obbligo, i compagni lo punirono… saccheggiandogli il palazzo. Gli Immortali, gruppo fondato nel 1507, recitarono nel 1515 e nel 1520 delle commedie sia a palazzo Pesaro che a palazzo Foscari. E i membri della compagnia che nel 1507 erano ancora giovani patrizi in cerca di divertimenti, nel 1520 erano divenuti solenni uomini maturi che rivestivano importanti cariche pubbliche. Anche questo la dice lunga sulla funzione politica delle Compagnie della Calza a servizio della Repubblica pronte ad allestire feste e banchetti per illustri signori stranieri in visita a Venezia a beneficio del Doge e del suo entourage.
La festa come rappresentazione di potere politico: il Carnevale
Quando si parla di festeggiamenti e di Compagnie della Calza, si giunge necessariamente a toccare l’argomento Carnevale, perché questa era la festa che durava più a lungo e, probabilmente, la più divertente dell’anno. Ufficialmente il Carnevale iniziava nel giorno di Santo Stefano, si manifestava nei campi e nei palazzi della città in un turbinio di allegri mercati, balli e banchetti a cui i veneziani partecipavano mascherati. Anzi, a Venezia le maschere ebbero un tale successo, che ben presto spuntarono le prime botteghe di fabbricanti di maschere per ogni dove e che il governo si vide costretto a intervenire per proibire l’uso della maschera nelle chiese e nei monasteri femminili.
Il vantaggio di girare mascherati è evidente: si poteva nascondere la propria identità, si godeva di un anonimato che permetteva scherzi e trasgressioni altrimenti impossibili. E non sempre era un bene. Le maschere costituivano una fonte di pericolo se utilizzate da ladri e assassini che agivano in incognito, senza poter essere riconosciuti da eventuali testimoni scomodi. È evidente, poi, la loro pericolosità durante la notte, quando faceva buio e le strade erano ancora scarsamente illuminate da rare lanterne. I delinquenti avevano buon gioco e i signori di notte, la guardia notturna della Serenissima, avevano un bel da fare.
E comunque la Venezia rinascimentale e popolosa del Carnevale doveva essere uno spettacolo continuo. Durante quelle settimane plebe e nobiltà assistevano a diverse rappresentazioni ludiche più o meno pericolose. Ma, si sa, il gusto del brivido fa sempre colpo e ancor più lo faceva in quei tempi ormai lontani, presso genti abituate ad assistere a sanguinose torture ed esecuzioni capitali regolarmente eseguite in pubblico. Non le spaventava di certo la Guerra dei pugni, la cui traccia di pietra è il “ponte dei pugni” ancora presente sul Rio di San Barnaba. Qui si affrontavano, un tempo, le due fazioni dei Castellani e dei Nicolotti, abitanti di sestieri diversi della città, rappresentati soprattutto da lavoratori dell’arsenale i primi e da pescatori i secondi, che si sfidavano a colpi di pugni su un ponte privo di parapetto. Alcuni precipitavano subito nel canale o ci si buttavano per sfuggire a una sorte peggiore, i meno abili tornavano a casa malconci, i più sfortunati… non ci tornavano più.
Poi c’erano le Forze d’Ercole. Anche queste vedevano impegnate le due fazioni dei Castellani e dei Nicolotti, questa volta in uno spettacolo meno violento ma tuttavia rischioso. Si costruiva un palco, a volte su un’imbarcazione, a volte su una sorta di zattera, e su questo palco si formava, a poco a poco, una piramide umana. Gli acrobati salivano uno sulle spalle dell’altro sino a raggiungere una grande altezza. E l’ultimo degli atleti, quello che saliva sulla cima della piramide e che era, di solito, un giovinetto, si esibiva poi in diverse acrobazie.
Così, tra giochi di abilità ed equilibrio, guerre di pugni, balli improvvisati ovunque, pittoreschi mercati, sontuosi banchetti di nobili, recitazioni di commedie, intrattenimenti musicali e scherzi dei buffoni, il Carnevale veneziano diventava lo sfondo perfetto per la visita importante di qualche principe, di un ricco duca, addirittura di un imperatore. Personaggi importanti, che venivano accolti dal Doge con il suo Bucintoro (la nave di rappresentanza riccamente decorata) e poi alloggiati in magnifici palazzi.
Il culmine del Carnevale: “el zioba de la cazza”
Ma i festeggiamenti più splendidi avevano luogo il giovedì grasso, quando si celebrava la caccia del toro e dei porci, per questo motivo il popolo chiamava quel giorno “zioba de la cazza”, giovedì della caccia. Era un rituale violento che si svolgeva in piazza San Marco e cui assisteva il Doge con tutta la Signoria. Le origini di tale celebrazione affondano nella vittoria del 1162 riportata dai veneziani contro Ulrico, patriarca di Aquileia. Quest’ultimo era rappresentato da un toro, mentre i suoi canonici e accesi fedeli erano rappresentati, meno elegantemente, dai porci. Dopo essere stati condannati a morte mediante lettura di sentenza da parte della Signoria, questi poveri animali venivano cacciati e crudelmente uccisi dai fabbri che giungevano in gran pompa armati di lance, scimitarre e spade. Con grande divertimento del popolo. Dopodiché maiali e toro venivano squartati e tagliati a pezzi dagli scalchi e donati alla plebe in festa.
Terminato questo spettacolo cruento, arrivava il pezzo forte del giovedì grasso. Nei tempi più antichi, l’esibizione aveva luogo nella piazzetta, dinanzi al palazzo ducale e al molo di San Marco ed era chiamata: il volo del turco. Le origini di tale rappresentazione acrobatica sono incerte, pare che il primo volo del turco sia avvenuto verso la metà del XVI secolo e sia stato eseguito, appunto, da un acrobata turco. Più tardi sarebbe stato chiamato “volo dell’angelo” ed eseguito in modo molto meno spericolato, sino a perdere qualsiasi elemento di rischio e a divenire una semplice rappresentazione simbolica. Ma il primo acrobata, quel giovane turco che mise a rischio la propria vita, camminò su una fune tenendosi in equilibrio con un semplice bilanciere e senza altre sicurezze. Partì da una zattera ancorata presso il molo e raggiunse la cella campanaria del campanile di San Marco. Poi scese lungo una seconda corda dalla cella campanaria sino alla loggia del palazzo ducale per rendere omaggio al serenissimo principe. Una prestazione non indifferente, anche perché sotto di lui non c’era nessuna rete di salvataggio.
Più tardi, dopo che un infelice acrobata si sfracellò sul pavimento litico della piazzetta, si decise di attuare una forma meno rischiosa di volo. Il giovane uomo fu vestito con un farsetto colorato munito di ali per assomigliare ad un angelo e assicurato alla corda per mezzo di anelli di legno fissati alle spalle del suo abito e ai suoi piedi. L’angelo veniva velocemente issato sino alla cella campanaria e poi fatto scendere dalla cella campanaria fino alla loggia ducale mediante un sistema di corde e carrucole. Un cronista aggiunge che di solito si sceglieva a tale scopo un giovane marinaio di costituzione forte e atletica, perché un volo così non era roba per tutti. Ma è chiaro che il volo dell’angelo avesse perso ormai quel senso di brivido ed emozione che doveva aver suscitato nel pubblico in festa l’antico volo del turco, molto più spericolato e – ahimè – anche mortale.
E a questo punto mi pare opportuno concludere il mio articolo proprio con l’immagine del volo del turco e con le parole dello storico Giuseppe Cappelletti sul Carnevale veneziano:
Questa festa era infine la festa di tutti, ed ogni cittadino portava impressa nel volto una porzione del diletto comune; e chi non v’interveniva, chiedeva almeno con ansietà le nuove agli altri, e se ne faceva narrare gli accidenti.
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