Il fascino inquietante della magia

 

 

Africa misteriosa. Ben poco si conosce del mondo magico africano, invisibile all’occhio del turista inesperto. Eppure i riti magici che integrano il vudù, antica forma di religione panteistica degli Yoruba fiorita principalmente in Nigeria e Benin, hanno raggiunto anche l’America. E nonostante in Africa i colonizzatori bianchi abbiano imposto con il pugno di ferro islam e cristianesimo allo scopo di cancellare le tradizioni ataviche, la magia è sopravvissuta ovunque. Feticci, maschere, sculture di divinità pagane, strumenti divinatori vengono custoditi accanto al Corano o alla Bibbia. Sono i mezzi di comunicazione con lo spirito dei padri.

Tipico prodotto dell’arte magico-religiosa africana è lo nkisi, il feticcio. Lo nkisi è un punto centrale nelle cerimonie magiche. Diffuso soprattutto in Angola, Congo e Zaire, si dice possa attribuire al suo possessore dei poteri magici oppure, in caso negativo, anche delle malattie provocate da un incantesimo. Il feticcio costituisce l’involucro materiale in cui è racchiusa la forza spirituale di un sangoma, quello che noi in Europa chiamiamo più prosaicamente lo stregone africano. A volte potrebbe trattarsi anche dello spirito stesso di un sangoma defunto, più frequentemente sono invece gli spiriti della natura che, dopo essere stati catturati da un sangoma, possono essere rinchiusi nello nkisi.

Nkisi, visto di profilo. Arte dei Songye, Congo. Foto: per gentile concessione di Gustav Schmidt.

Nkisi, visto di profilo. Arte dei Songye, Congo. Foto: per gentile concessione di Gustav Schmidt.

In che modo? Il sangoma prepara un sacchettino contenente un po’ di fango preso dal fondo di un fiume, foglie, erbe, radici, corteccia d’albero, artigli e/o becchi di uccelli, peli e/o code di animali, piume ed altri liquidi animali che non sto a descrivere qui in dettaglio perché potrebbero disturbare il lettore, veleni vegetali e semi. Il sacchettino, permeato dallo spirito della natura e dei riti magici del sangoma, viene quindi inserito in un incavo del feticcio. In questo modo lo nkisi acquista forza vitale. Qualora non abbia a disposizione una statua, il sangoma può anche appendere il sacchettino a una cordicella e la persona che necessita questa forza magica – eventualmente anche per combattere la malattia – porta il feticcio al collo come un amuleto. Si conoscono più di 150 tipi differenti di feticci.

 E poi c’è la maschera. Le maschere per le cerimonie religiose sono fatte per essere infilate sulla testa (come un casco) e portate insieme con un mantello (o un costume tipico) che viene fissato al bordo inferiore della maschera stessa (ci sono infatti dei buchi in cui passare eventuali cordicelle) e deve nascondere interamente il corpo di chi lo indossa. È interessante soffermarsi qualche attimo sul significato di tale oggetto magico, giacché penso che la maschera africana in generale si riveli particolarmente interessante anche per comprendere l’uso di questo elemento in altre culture antiche, come per esempio quella della Vecchia Europa. Perché non dobbiamo dimenticare che noi tutti veniamo dall’Africa. Adamo ed Eva erano africani.

Prima di tutto bisogna sottolineare che nelle tante tradizioni del Continente Nero la maschera è sempre la raffigurazione di una divinità. E bisogna precisare inoltre che la maschera non è fatta per essere immobile, ma per ballare. Senza la danza, la maschera non potrebbe esistere. Maschera, musica e danza sono tre elementi essenziali e assolutamente complementari della cerimonia religiosa. La danza, infatti, infonde vita nella maschera e al contempo la rende divina.

La maschera come tramite divino

 Di conseguenza la persona che indossa la maschera normalmente porta anche un costume (o mantello) che deve corrispondere al tipo di maschera usata. L’individuo mascherato può essere maschio o femmina, non ha importanza, giacché la maschera gli fa perdere la sua identità e lo trasforma in uno strumento divino. Il costume e la maschera nascondono completamente la persona agli sguardi dei presenti. Non esiste più.  Al suo posto subentra il dio. Ed è interessante il fatto che nel momento in cui la maschera si anima grazie alla danza e alla musica, questa incuta un grande rispetto nei presenti, perché permeata dallo spirito della divinità. Diventa intoccabile, diventa tabù.

Maschera dei Tabwa, Congo. Foto: per gentile concessione di Gustav Schmidt.

Maschera dei Tabwa, Congo. Da notare le conchiglie kauri inserite al posto degli occhi. Sul bordo inferiore della maschera si intravedono dei fori ai quali veniva fissato un mantello oppure un costume per la danza sacra. Foto: per gentile concessione di Gustav Schmidt.

Ovviamente il portatore della maschera non è mai una persona qualsiasi, ma riveste una posizione di rilievo nella comunità. E se per tutta la durata della danza questa persona viene identificata con la divinità stessa, quando invece la danza è finita, l’individuo riacquista la sua posizione normale di essere umano particolarmente privilegiato in seno al gruppo. In alcuni Paesi soltanto gli iniziati alle dottrine segrete possono partecipare alle cerimonie religiose in cui si fa uso di maschere sacre, e la danza è di solito accompagnata da tamburi.

 Nel Mali, la società segreta maschile dei Komo festeggia il dio dell’acqua Faro per propiziarsi la sua benevolenza e fare buona pesca nel fiume Niger. Ogni anno viene intagliata una maschera nuova in onore della divinità. I tratti sono in parte umani e in parte quelli di un animale sempre diverso: un leopardo, una iena, un elefante, una cicogna, e via dicendo. I colori usati per dipingere la maschera sono nero, rosso e bianco. Il nero rappresenta il fango fertile del fiume, il rosso invece il sangue delle vergini che un tempo – ahimé! – venivano sacrificate al dio del fiume.

Maschera dei Tabwa, Congo, profilo. Foto: per gentile concessione di Gustav Schmidt.

Maschera dei Tabwa, Congo, profilo. Foto: per gentile concessione di Gustav Schmidt.

 Non c’è da meravigliarsi che le maschere abbiano un aspetto tetro, che ci facciano una certa impressione: i loro lineamenti devono essere spaventosi, affinché incutano nell’osservatore timore sacro e rispetto. Gli occhi, il naso e talvolta anche le orecchie della maschera sono molto grandi oppure marcati. A volte gli occhi sono piccoli ma evidenziati da conchiglie (come nel caso della maschera tabwa qui raffigurata). Il motivo è semplice: la divinità  deve vedere, odorare e sentire se e quando gli esseri umani compiono delle azioni cattive. Mentre la bocca della maschera è di solito molto piccola oppure addirittura inesistente. La bocca della mia maschera tabwa c’è, ma è in realtà un’apertura all’altezza degli occhi della persona danzante che le permette di vedere dove mette i piedi. In ogni caso, il personaggio mascherato non deve parlare. Se accompagna la musica sacra per mezzo della voce, allora può soltanto mormorare o fischiare la melodia. Nulla più.

 Inutile dire che quest’ultimo particolare ricorda in modo impressionante le maschere preistoriche della Vecchia Europa, le quali sono per lo più prive di bocca. Anche per questo c’è una spiegazione: la voce dell’essere umano non può intromettersi nell’azione sacra, né deve rivelare l’identità della persona che ormai è diventata tutt’uno con lo spirito della divinità.

 

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