Clan, caccia e magia
Al centro della struttura sociale dei Boscimani ci sono i clan familiari che possono contare fino a una cinquantina di persone. Il nucleo interno del gruppo è rappresentato da coloro che vivono già da molto tempo presso una fonte d’acqua (oggi una cisterna) e quindi ne sono considerati i proprietari.
Nel villaggio tutto viene vissuto e deliberato insieme, ogni cosa viene condivisa. I generi alimentari sono distribuiti all’interno del gruppo secondo regole ben precise. Alcuni anni fa, quando mi sono recata al povero villaggio di Molapo durante un lungo viaggio nel Kalahari, ho portato con me del tabacco da regalare alla comunità, perché sapevo che i Boscimani hanno un debole per il tabacco. E non appena ho consegnato ai più vecchi del clan il mio regalo, questi hanno iniziato a distribuire il tabacco, suddiviso in quantità perfettamente uguali, fra tutti gli abitanti adulti del villaggio.
Sappiamo poi che un tempo, quando i Boscimani potevano cacciare liberamente nelle savane, il possessore della freccia che aveva causato la morte dell’animale cacciato aveva il diritto di distribuire la selvaggina. Non soltanto gli uomini potevano farlo. Se la freccia in questione apparteneva a una donna (forse le era stata donata), anche questa poteva effettuare la distribuzione della selvaggina tra i membri della comunità.
Vediamo quindi che alla base dei clan c’è una struttura sociale egalitaria. Ed è sempre stato così. Se nel passato, occasionalmente, una comunità di San ha avuto un capo, questi non ha mai assunto un ruolo predominante come accade in altre strutture sociali. Rimanendo un membro come gli altri, ha avuto solamente mansioni organizzative e di portavoce del gruppo.
San: la „parentela di nome“
Oltre ai rapporti di parentela fra consanguinei, i San conoscono anche una parentela di nome. Le persone della comunità che hanno lo stesso nome e sono più vecchie, vengono chiamate dalle più giovani omonime nonno o nonna, quelle più giovani sono invece chiamate dalle più vecchie nipote. Quelli che sono sposati con un individuo che porta lo stesso nome di una persona del clan, vengono chiamati da questa persona moglie o marito, e così pure i genitori, che hanno dei figli con lo stesso nome di una persona del gruppo, vengono da lei chiamati padre o madre. Evidentemente il nome riveste un’importanza tale da influenzare anche la scelta del partner per la vita, giacché una donna non può sposare un uomo che abbia lo stesso nome di suo padre o di suo fratello, e un uomo non può prendere in moglie una donna che porti lo stesso nome di sua madre o di sua sorella. Un elemento di antico retaggio magico?
Per i San la nascita di un bambino è un evento del tutto naturale e all’ordine del giorno, cui non segue nessuna cerimonia particolare. Nel momento del parto la donna si allontana insieme con la madre e, nascosta fra i cespugli, da alla luce il suo bambino. I Boscimani amano molto i loro bambini, con cui giocano per ore intere, e il cui svezzamento dura a lungo. Di solito i bambini sono allattati fino al terzo, quarto anno di età. Per questo motivo i San non hanno una prole molto numerosa. Le famiglie contano al massimo tre o quattro figli ciascuna.
Con la stessa spontaneità del parto è affrontata anche l’educazione sessuale dei bambini, che iniziano a coprire le parti intime del proprio corpo dopo i nove anni di età e imparano a scoprire la sessualità per mezzo di giochi con i loro coetanei. Nessun tabù sessuale, quindi, presso i San.
Anche riguardo la scelta del partner di vita un margine di libertà è sempre lasciato alla coppia. Nonostante il primo “matrimonio” venga deciso dalle madri dei due interessati, se l’unione non è felice può essere troncata in qualsiasi momento in modo informale, e ciascuno dei partner è libero di unirsi nuovamente in matrimonio con un altro membro della comunità. Solo il matrimonio fra parenti di primo e secondo grado non è permesso e viene considerato incestuoso.
Riti funerari e di guarigione
Molto interessanti sono i riti funerari e di guarigione dei San, le loro credenze religiose. I Boscimani seppelliscono i morti in posizione seduta. La salma viene avvolta in un mantello decorato con perle, e poi sotterrata. Si ricopre la tomba con pietre e rami spinosi, affinché sia protetta da eventuali aggressioni di animali in cerca di cibo.
I pochi beni del defunto – i Boscimani conservano solo un piccolo numero di oggetti personali, la maggior parte dei quali viene continuamente regalata e quindi passa da un membro all’altro della comunità – e la sua capanna vengono distrutti, i resti sparpagliati sopra la tomba. Dopodiché si accende un fuoco e nel terreno si conficca un filo d’erba che deve essere orientato su una medesima linea con la tomba, il fuoco e il luogo di nascita della persona morta.
Un elemento molto interessante, questo del filo d’erba. Altrettanto interessante è a mio avviso la posizione con cui viene seppellita la salma, quella seduta, che mi ricorda un misterioso feticcio funerario degli antichi egizi, il cosiddetto Tekhenu, la cui simbolica rimane tutt’oggi un mistero.
Ma i San credono che i defunti non si allontanino per sempre. Soprattutto nel primo periodo dopo il decesso i loro spiriti rimangono vicini al villaggio e possono causare malattie, incidenti oppure altre morti presso i membri della comunità. Dunque è necessario guarire i malati non solamente dal punto di vista medico, ma anche da quello spirituale. Bisogna attivare l’energia vitale del malato, e questo avviene per mezzo di una danza.
Si celebra tale rito quattro volte al mese, l’evento dura tutta una notte. In cerchio attorno a un grande fuoco siedono le donne della comunità, che cantano e battono le mani. Gli uomini danzano intorno a loro. Di mano in mano che la danza e i canti si fanno più intensi, l’energia vitale dei guaritori – che possono essere individui di sesso maschile o femminile – aumenta, finché questi cominciano a sudare, a tremare, a volte cadono in trance.
Allora vengono condotti dai malati che devono essere guariti. I guaritori pongono le proprie mani sul petto o sulla schiena dei malati, li massaggiano, ed estraggono così dai loro corpi la malattia. Fatto ciò, si allontanano all’aperto e, giunti a una certa distanza dallo spiazzo intorno al fuoco, scuotono le mani nel buio della notte per liberarsi dalla malattia e gettarla lontano.
I San immaginano che il centro dell’energia vitale dei guaritori si trovi nello stomaco e nella parte più bassa della colonna vertebrale. Durante il canto delle donne e la danza degli uomini intorno al fuoco, questa energia sale dal basso verso l’alto nel corpo del guaritore, per raggiungere la testa e poi salire ancor più su, sino agli dèi e agli spiriti degli avi defunti. Gli dèi boscimani, che non sono solamente una divinità creatrice e una divinità burlona, ma anche gli spiriti degli animali. Giacché i miti dei San, incentrati su una religione di tipo animista, raccontano di divinità che un tempo vivevano sulla terra, di un’epoca in cui gli animali erano esseri umani.
Il rito di guarigione evidenzia una volta di più il forte spirito di gruppo delle comunità boscimane. Nessuno è superiore agli altri, tutti devono collaborare nella vita di ogni giorno, ciascun membro è ugualmente necessario al benessere del villaggio. Non esiste una gerarchia sociale, così come non c’è mai stata una classe sacerdotale o un’élite di tipo sciamanico. Un principio di base diametralmente opposto a quello dei governi occidentali e alle radici delle tre grandi religioni (cristianesimo, ebraismo e islam), secondo i cui precetti una cerchia esclusiva di sacerdoti funge da tramite fra il popolo e il suo dio.
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Clicca qui per vedere il sito Survival International con informazioni sui Boscimani.
Buongiorno Sabina,
sono Rossella (una signora anziana e non molto istruita) ed ho letto con piacere l’articolo sui San „Clan, caccia e magia“ sui suo sito scoperto proprio oggi.
Le scrivo per avere – se possibile – un suggerimento da lei: tempo fa un conoscente mi ha raccontato il modo con il quale i San dirimono i loro attriti e cioè la consuetudine di riunirsi a „battere delle pietre“ tutti insieme, rimandando la comunicazione verbale a quando il suono collettivo non arrivi ad essere armonioso e sincronizzato.
Trovo questa pratica (e l’intuizione) assolutamente perfetta, di gran lunga superiore ai modelli occidentali e di una enorme eleganza psicologica: per farla breve mi piacerebbe saper di più.
Posto che io non stia dicendo corbellerie e che l’argomento sia da lei conosciuto, le chiederei – se non la disturba – di suggerirmi un testo (in italiano) su questo rito.
La ringrazio fin da ora per la disponibilità, cordialmente
Rossella