La “Porte des Tours”, entrata alla fortezza dell’antica città della Dordogna il cui torrione in parte distrutto ancora conserva una testimonianza inquietante e spaventosa: i graffiti dei Cavalieri del Tempio imprigionati a Domme.
Qui, fra il 1307 e il 1318, furono rinchiusi 70 Templari. Nella penombra del carcere angusto, tra le mura massicce della fortezza appena rischiarate dalla poca luce che attraversava le feritoie di uno stretto pertugio, i monaci guerrieri incisero sulle pareti e sulle panche di pietra immagini e parole dettate dalla disperazione, dalla rabbia e forse anche da credenze poco ortodosse. I graffiti della Porte des Tours di Domme sono i più importanti di tutta la Francia, una testimonianza unica gelosamente conservata. Le immagini sollevano molte domande, una in particolare riguarda il Graal.
Il grido dietro quella porta
Ho avuto la fortuna di poter oltrepassare la porta della torre diroccata che un tempo faceva parte di una fortezza: la “bastide” della bella cittadina Domme, voluta da Filippo L’Ardito e costruita dal 1283 al 1310. L’antico soffitto è, in gran parte, precipitato. Oggi la luce del cielo illumina la stanza rotonda. Un tempo, quando i 70 Templari languivano in quella cella, il cielo non si vedeva. Dominava invece la penombra. Il freddo. Il silenzio dello sconforto.
Forse la cosa più impressionante è proprio il pensiero che i graffiti non fossero destinati al pubblico, bensì solo agli sguardi dei compagni di sventura traditi, torturati. Questo fatto gli conferisce un’intimità struggente. Sono come un grido senza voce inciso nella pietra. Un grido perenne, che supera la barriera del tempo e giunge sino a noi estranei. Gente di oggi che non possiede più le conoscenze necessarie a svelarne il segreto. Ecco, il grido muto è forse l’elemento più impressionante della Porte des Tours.
E poi queste mura hanno custodito per anni il segreto dell’eresia templare, il capo d’accusa principale che portò all’arresto di tutti i Templari di Francia nel fatidico ottobre 1307. Erano davvero colpevoli, i monaci guerrieri? Tendo a credere che almeno una cerchia all’interno dell’Ordine lo fosse. Dagli interrogatori effettuati durante i processi, che si possono consultare ancora oggi prendendo in esame la raccolta dello storico Jules Michelet, sono emersi numerosi particolari inquietanti che sembrano confermare la possibilità dell’esistenza di un ordine nell’ordine. Le testimonianze di cavalieri che confessano di aver partecipato a pratiche eretiche non mancano, nemmeno quelle che non furono estorte mediante tortura.
Si è parlato spesso dell’esistenza di statuti templari segreti. Questi sarebbero stati noti soltanto ad una piccola parte dei membri dell’Ordine, ad una cerchia interiore occulta. Alla fine del XVIII secolo, lo storico Friedrich Münter trovò a Roma alcune regole segrete copiate nel 1240 dal maestro templare Robert de Samfort. Le stesse regole sarebbero poi riapparse nel XIX secolo in una biblioteca di Amburgo e vengono citate dallo storico ecclesiastico Ferdinand Wilcke nella sua opera “Die Tempelherren”. Anche lo studioso Robert John, nel suo libro Dante, accenna all’esistenza di una regola segreta.
Egli dice che durante un processo templare avvenuto nel 1310 a Lucera, in Puglia, il templare catalano Galcerand de Teut rivelò che all’interno dell’Ordine esistevano gli “Statuti segreti di Damietta”, che sarebbero stati redatti nella fortezza di Athlit, in Terra Santa. Secondo de Teut, tali regole segrete avrebbero sostituito quelle di Troyes e trasformato l’Ordine in una lega di eretici. Si riferisce forse agli statuti di Damietta anche il vate Dante Alighieri nella Divina Commedia quando ci parla del Grande Veglio nella grotta del monte Ida che “volge le spalle a Dammiata”? Il templare Gervais de Beauvais affermò:
C’è nell’ordine un regolamento così straordinario sul quale viene osservato un tale segreto che ciascuno preferirebbe farsi tagliare la testa piuttosto che rivelarlo.
Molti crocifissi sono incisi sulle pareti della prigione di Domme. Raffigurati sopra un triangolo che potrebbe rappresentare il monte del calvario. Ci si chiede quindi se questo simbolo forte e universale intendesse in primo luogo proclamare la fede in Gesù Cristo, oppure se fosse invece un’allegoria della croce che quei 70 uomini portavano sulle proprie spalle. Il peso di un’accusa virulenta che giungeva da un re imperioso coadiuvato nel suo intento da un pontefice debole e servo. Il traditore Clemente V, come lo definirono proprio quei 70 cavalieri rinchiusi a Domme. Il suo tradimento fu inciso nella pietra.
Accanto ai crocifissi appare spesso una sagoma che molto probabilmente rappresenta la Vergine Maria, ma un altro grande protagonista dei graffiti templari è Giovanni. Un Giovanni in primo piano che, in un graffito, viene raffigurato accanto alla Vergine incoronata, Nôtre Dame. Quella signora tanto amata da Bernardo di Chiaravalle e dall’Ordine del Tempio, le cui immagini dominano le chiese gotiche e a Domme sono presenti ovunque. La Vergine che Bernardo chiamò “Stella maris” e paragonò alla stella mattutina, Lucifero, l’astro portatore di luce ma anche, per gli iniziati, la divinità al centro di numerosi riti gnostici.
La Vergine del mare illumina anche la prigione della Porte des Tours. E Giovanni, che non è soltanto l’Evangelista, che non è soltanto “il figlio” di Maria designato da Gesù nel momento della morte, bensì il Giovanni Battista della corrente eretica del Tempio, trova fra i graffiti di Domme il posto che gli compete. Accanto alla Vergine Maria, al femminino sacro che nel sincretismo gnostico è un tutt’uno con l’immagine della sacerdotessa Maddalena di Betania. Colei che unse il capo di Gesù con l’olio di nardo. Il simbolo di tutte le divinità femminili dei tempi più remoti. Vediamo quindi che i graffiti di Domme sono come un libro segreto inciso nella pietra.
Clemens V, destructor Templi
Questa la scritta che accompagna la sagoma di papa Clemente V, rappresentato come un mostro a due teste accanto al re Filippo il Bello. Il grido di condanna è palese, è inutile tentare oggi di lavare la reputazione di questo pontefice che avrebbe riabilitato l’Ordine. La verità del tradimento era ben nota ai Templari imprigionati a Domme che sicuramente conoscevano la loro situazione molto meglio di quanto la conosciamo noi. Il papa che sancì lo scioglimento dell’Ordine che sempre lo aveva protetto, doveva essere, agli occhi dei cavalieri di Domme, degno delle fiamme dell’inferno.
La posizione contraddittoria di Clemente, che da una parte avrebbe voluto salvare il Tempio ma dall’altra temeva il re e finì per compiacerlo, era dovuta al gioco abile del monarca. Filippo aveva appena accusato di eresia sia il papa deceduto Bonifacio VIII che il vescovo Guicciardo de Troyes. Si voleva dimostrare che la Chiesa di Roma era corrotta e che si dava a pratiche eretiche. In questo modo si sarebbe dichiarata l’istituzione della curia romana non valida e costituita una nuova Chiesa francese indipendente che si sarebbe trovata sotto il controllo diretto del re di Francia.
Piegandosi al volere di Filippo, Clemente V riuscì ad evitare in extremis che l’infamante processo contro Bonifacio VIII divenisse pubblico e scandalizzasse l’intera Cristianità, compromettendo irrimediabilmente la Chiesa Cattolica. Di conseguenza, Clemente abbandonò l’Ordine del Tempio nelle mani di Filippo e il monarca, in cambio, fece sparire gli atti del processo contro Bonifacio nei suoi archivi. Do ut des.
Nel suo libro “Il papato e il processo ai Templari” la storica Barbara Frale nota che nemmeno lo stesso pontefice Clemente V, pur avendo condotto la sua inchiesta personale sull’affare del Tempio, alla fine si trovò in grado di controbattere l’accusa che riguardava la cerimonia blasfema d’iniziazione. La situazione era difficile, perché i Templari avevano praticato questo rituale almeno per un secolo e in modo sistematico (sic!). Gli indizi provenienti da molte inchieste e la deposizione di un informatore del re spagnolo Giacomo II, avevano confermato al papa i suoi timori.
Alcuni anni fa, Frale ha portato alla luce negli Archivi Vaticani un documento perduto che attesta l’assoluzione di Clemente V concessa ai dignitari dell’Ordine imprigionati a Chinon. Questa pergamena è stata esaminata e convalidata dagli storici specialisti in materia templare: Alain Demurger, Franco Cardini e Malcom Barber.
L’inchiesta che fa capo a tale documento ebbe luogo a Chinon tra il 17 ed il 20 agosto 1308. Furono sottoposti a interrogatorio il Gran Maestro Jacques de Molay, il Maestro di Cipro, il Visitateur di Francia e i Precettori di Normandia, Aquitania, Poitou. Tutti questi uomini affermarono di conoscere la cerimonia iniziatica eretica, e in parte di averla anche praticata. Inoltre dimostrarono di pentirsene, giustificarono l’atto della cerimonia dicendo che era una prassi soldatesca di cattivo gusto, e chiesero perdono.
I religiosi del comitato d’inchiesta decisero di accettare la versione della tradizione soldatesca come spiegazione plausibile per salvare almeno i dignitari di Chinon dall’ira del pontefice. E tuttavia era ormai troppo tardi per mettere in salvo l’intero ordine. Troppe confessioni, troppe deposizioni intriganti apparivano negli atti processuali, nero su bianco, a confermare la cerimonia blasfema che si presentava – essendo il Tempio in prima linea un ordine religioso – incomprensibile e imperdonabile. Una tale mancanza conduceva alla scomunica.
Dopo aver portato a termine l’inchiesta di Chinon e assolto i dignitari dell’Ordine, Clemente V promulgò la bolla “Faciens misericordiam” per dichiarare ufficialmente la risoluzione presa. I dignitari furono in questo modo riconosciuti innocenti dinanzi alla Cristianità. Ma un anno dopo il papa sembrò aver cambiato la sua opinione in proposito, e abbandonò i prigionieri di Chinon al loro destino. Anche i prigionieri di Domme erano ormai perduti, e i graffiti rispecchiano tutta la loro rabbia nei confronti del pontefice “distruttore del Tempio”.
E tra i graffiti: il Graal
La posizione di questa immagine di calice del tutto particolare incisa nella pietra è poco lontana dalla porta d’accesso alla prigione, dal lato opposto alla finestra. È chiaro che un simbolo sia sempre aperto a diverse interpretazioni, e coloro che non credono nella cerchia eretica in seno all’Ordine del Tempio vedono nel calice di Domme quello che contiene il sangue di Cristo. Una lettura che ben si presta al Graal di Robert de Boron, vale a dire la versione cristianizzata del mito. In realtà originariamente il Graal non era un mito cristiano. E in questa lettura è da interpretarsi la sua presenza fra i graffiti di Domme.
Una delle chiavi per comprendere il rapporto fra i Cavalieri del Tempio e il simbolo del Graal (la Conoscenza segreta) si trova a Gerusalemme, là dove l’Ordine del Tempio vide la luce, sul colle sacro, nella Cupola della Roccia. L’edificio che i Templari chiamavano “Templum Domini”, a dispetto della chiesa del Santo Sepolcro. Del resto la Cupola della Roccia ha una pianta ottagonale, così come molte cappelle templari soprattutto spagnole, e la figura geometrica dell’ottagono veniva associata al Graal.
Il rapporto stretto dell’Ordine con la Cupola della Roccia rimane tuttoggi un mistero. Le leggende d’Oltremare riferiscono che i Templari ponevano il Graal, nel corso di certe cerimonie, nel Templum Domini, sulla roccia sacra, e lì lo adoravano. Gli antichi scritti ebraici del Talmud sembrano confermare il legame antico tra la Roccia e l’Arca dell’Alleanza, ribadendo che la Cupola fu eretta nel luogo in cui s’era innalzato il tempio di Salomone, e che l’Arca dell’Alleanza sarebbe stata posta sulla Roccia sacra. Un indizio – seppure mitologico – che lega i monaci guerrieri all’Arca divina.
Le tradizioni antiche parlano anche di una vera croce che si sarebbe trovata nel Tempum Domini. Questo frammento della vera croce del Golgota era custodito sotto il vetro di un crocefisso patriarcale. La reliquia però, contrariamente a ciò che farebbe pensare il suo nome, in verità simbolizzava l’arbor vitae, l’albero della vita, simbolo precristiano e rappresentazione dell’asse dell’universo che univa il microcosmo al macrocosmo.
Oltre alla vera croce, il Tempum Domini ospitava anche una candela dorata: tale oggetto serviva a contrassegnare il punto in cui la Vergine Maria aveva presentato il figlio Gesù ai sacerdoti del Tempio. E tuttavia non si trattava nemmeno in questo secondo caso di una tradizione legata in primis a Gesù, bensì di un richiamo a Maria, l’erede della Dea Madre mediterranea: era un chiaro riferimento alla sua luce e alle sue leggende.
Prova ne sia, che i Templari usavano festeggiare nel Templum Domini la Madonna Candelora, e questa festa deriva dalla cristianizzazione della più antica cerimonia celtica di Imbolc: la luce, nata dal grembo della Dea Madre, torna ad illuminare il mondo. Ed ecco ancora l’elemento del femminino sacro: Maria Stella maris di Bernardo di Chiaravalle, il padre spirituale del Tempio. Forse è proprio la sua sagoma quella incisa su una parete della prigione di Domme accanto ad un calvario: il padre benevolo che allunga le braccia verso la croce dolorosa, come per alleviare le sofferenze dei suoi monaci traditi.
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