L’architetto e pittore Giorgio Vasari scrisse nella sua opera “Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori”: Ne’ medesimi tempi che Fiorenza acquistava tanta fama per l’opere di Lionardo, arrecò non piccolo ornamento a Vinezia la virtù et eccellenza di un suo cittadino, il quale di gran lunga passò i Bellini, da loro tenuti in tanto pregio, e qualunque altro fino a quel tempo avesse in quella città dipinto. Questi fu Giorgio che in Castel Franco, in sul trevisano, nacque l’anno 1478, essendo doge Giovan Mozenigo, fratel del doge Piero: dalle fattezze della persona e da la grandezza de l’animo, chiamato poi col tempo Giorgione.
L’unica biografia di un contemporaneo, giacché Vasari nacque poco dopo la morte del Giorgione. Ma l’immagine di Giorgio da Castelfranco proposta dall’architetto rimane sfocata, enigmatica, inafferrabile. Proprio come le rare notizie storiche. Le righe di Vasari tratteggiano un abbozzo favoloso di uomo, un fantasma accattivante, un mito. E questo è un fenomeno davvero unico per un artista che, pur essendo attivo nell’arco di soli dieci anni sullo sfondo della Repubblica di Venezia, illuminò la scena dei pittori del Cinquecento come una sfolgorante cometa. Giorgione era una star dell’epoca.
Le sue opere erano molto richieste e difficili da acquistare, sembra che nemmeno la ricchissima Isabella d’Este, moglie del marchese di Mantova Francesco II Gonzaga, sia riuscita ad ottenere una natività del Giorgione, tema molto di moda. Nell’ottobre 1510, dopo la morte di Giorgio da Castelfranco, Isabella incaricò un suo mediatore di recarsi a Venezia per acquistare il dipinto, ma senza successo. L’opera non si trovò, era già andata ad abbellire lo studiolo di qualche committente privato.
Cosa del tutto comprensibile, dato che Vasari definisce Giorgio da Castelfranco addirittura di gran lunga superiore ai pittori della famiglia Bellini e questa non è un’osservazione di poco conto, perché in quel tempo i Bellini erano i maestri indiscussi della pittura veneziana e la loro bottega era celebre in tutta Europa. A parte la grande abilità del suo pennello, i committenti più stretti del Giorgione sapevano che l’interesse del pittore andava anche ai simboli occulti, alle rappresentazioni esoteriche. La celebre tela della Tempesta o quella de I tre filosofi sono forse gli esempi più manifesti. Niente di strano in un’epoca all’insegna dell’umanesimo intriso di neoplatonismo, nel cui contesto le accademie di letterati discutevano gli scritti di Ermete Trismegisto e il noto tipografo veneziano Aldo Manuzio pubblicava la misteriosa opera allegorica “Hypnerotomachia Poliphili”. Ma questo carattere più segreto del Giorgione non appare nella biografia di Vasari.
Dalle righe dell’architetto sappiamo invece che ser Giorgio coltivava il bello. Gli piacevano le donne. La sua musica allietava i convegni, il pittore amava la compagnia e gli amori. E quando osservo il suo autoritratto esposto in un museo tedesco di Braunschweig, immagino il fascino che l’artista deve aver esercitato sul sesso femminile. Su questa tela il Giorgione si è raffigurato come un David in corsaletto da guerra, il volto giovane incorniciato da folti capelli scuri e ondulati. Emerge dal buio della notte. I tratti regolari, il naso leggermente aquilino, le belle labbra e il mento pronunciato, deciso, caparbio, che sfida l’osservatore a scoprire il segreto dell’artista. Anche il suo sguardo è una sfida. Così ci parla il pittore di Castelfranco dalla sua tela.
Giorgio Vasari vide questo dipinto nello studio di Giovanni Grimani, patriarca di Aquileia, e lo cita brevemente nelle “Vite”, come bellissima testa a olio. Ma per me l’autoritratto è anche qualcos’altro. Negli istanti in cui il dipinto prendeva vita, quegli occhi scuri oggi rivolti verso l’osservatore si riflettevano invece nelle iridi malinconiche del Giorgione. Il pittore si guardava allo specchio, mentre ci tramandava l’eco della sua triste bellezza. Era concentrato, pensoso, intento a carpire all’immagine riflessa una profondità raccolta, intensa. Frugava in se stesso per poter imprigionare nella forza del pennello l’essenza della propria anima inquieta. Visto da questa prospettiva, l’autoritratto del Giorgione mi commuove.
È morto molto giovane, il pittore di Castelfranco. Appena trentenne. Di recente la storica Renata Segre ha rinvenuto un importante documento nell’Archivio di Stato di Venezia che riporterebbe la data e il luogo di morte dell’artista: Venezia, Lazzaretto nuovo, ottobre 1510. Dunque il Giorgione dev’essere morto in seguito all’epidemia di peste che colpì la Repubblica di Venezia in quell’anno sfortunato. La scoperta della storica conferma l’informazione di Giorgio Vasari, correggendo di poco la data del decesso che l’autore delle “Vite” aveva collocato un anno dopo.
Non solo questo. Il documento rivela anche il nome completo del pittore fino ad oggi sconosciuto: Giorgio Gasparini, figlio di Giovanni. Lo scritto dell’archivio veneziano altro non è che l’inventario dei beni dell’artista ordinato dalla magistratura della Repubblica, stilato nel marzo 1511 e modificato nell’ottobre del medesimo anno. Ci fornisce alcune notizie sui mobili che si trovavano nell’abitazione del pittore e su qualche suo capo di vestiario che, a parte un abito rosso bordato di pelliccia di volpe, sembrerebbe essere stato piuttosto modesto.
Se ciò può sorprendere, bisogna tuttavia considerare che, nonostante le case degli appestati venissero chiuse e sbarrate, potevano essere ugualmente penetrati dei ladri all’interno dell’abitazione e aver sottratto gli oggetti di valore per tempo. In quanto ad eventuali opere artistiche, queste non vengono nominate nell’inventario. Non si può escludere che siano state messe al sicuro in precedenza da un committente o dalle autorità veneziane stesse. Inoltre è possibile che l’abitazione del Giorgione non coincidesse con la sua bottega e che il pittore fruisse di due ambienti separati. In questo caso le opere si sarebbero trovate altrove.
Comunque, stando al documento d’inventario, Giorgio Gasparini da Castelfranco dev’essere morto sull’isola del Lazzaretto nuovo, luogo in cui venivano messe in quarantena mercanzie e persone prima del loro arrivo a Venezia. Una misura preventiva, parte dell’efficiente organizzazione sanitaria veneziana in tempo di peste. Normalmente sull’isola del Lazzaretto nuovo, detta anche della Vigna murata, si portavano i malati di peste non accertati o che avevano ancora qualche possibilità di guarire dal morbo. La destinazione finale dei malati senza più speranze e delle salme dei morti di peste era invece il Lazzaretto vecchio, Santa Maria di Nazareth. Secondo il documento d’inventario, il pittore non ce l’ha fatta. Non è riuscito a vincere la malattia e ha abbandonato questo mondo già al Lazzaretto nuovo. Non sappiamo se sia stato poi sepolto in una fossa comune.
Una frase di Giorgio Vasari mi impressiona particolarmente: dalle fattezze della persona e da la grandezza de l’animo, chiamato poi col tempo Giorgione. È un’osservazione intima e delicata. Mi piace immaginarlo così. Un uomo dalla statura imponente e dall’animo generoso. Chi lo conosceva bene, gli diede un soprannome da grande con cui è noto ancora oggi, in tutto il mondo. Non Giorgio Gasparini, non Giorgio da Castelfranco, ma semplicemente: il Giorgione.
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