Scomparso sotto le acque del lago
Scomparso per sempre? Il sito archeologico di Nevali Cori, situato a soli 50 km di distanza da Göbekli Tepe, attualmente è sparito dalla faccia della terra. Durante la primavera del 1992 è stato inghiottito dalle acque. Si trattava di un luogo abitato più di 10.000 anni fa da gruppi di cacciatori raccoglitori, forse proprio dalle genti che parteciparono in prima persona alla costruzione degli ultimi santuari di Göbekli Tepe e al loro interramento. L’Anatolia, cuore della Turchia, sta rivelando i suoi segreti. Poco a poco questo territorio chiave diventa l’ombelico sacro di epoche preistoriche ancora avvolte nelle nebbie del mito. Quelle a cui appartengono le enigmatiche sculture di Nevali Cori.
C’era una volta… e ora non c’è più
Situato sulle allora fertili pendici dei monti Tauro e attraversato dal fiume Kantara, un affluente dell’Eufrate, l’insediamento di Nevali Cori si trovava in una posizione strategica. Ma se migliaia di anni fa il corso d’acqua aveva invitato i primi agricoltori a costruirvi il loro insediamento, nella seconda metà del XX secolo furono proprio quelle stesse acque a decretarne la definitiva sparizione.
Sin dal 1975 le autorità turche avevano incaricato l’archeologo tedesco Harald Hauptmann, dell’Università di Heidelberg, di mettere in salvo i reperti archeologici della regione. Il team diretto dal professor Hauptmann lavorava in collaborazione con il Museo Archeologico di Sanliurfa. Poi, in vista della costruzione della Diga di Atatürk, la situazione precipitò. Era inevitabile che le acque trattenute dall’imponente barriera, generando un enorme lago artificiale, inghiottissero il territorio anatolico, facessero sparire centri abitati e vestigia del passato. Bisognava salvare il salvabile senza perdere tempo. Dunque furono organizzate a Nevali Cori sette campagne di scavo, dal 1983 al 1991. Una corsa contro il tempo: recuperare il più possibile dal sito archeologico prima che fosse troppo tardi.
Più di 100.000 oggetti furono messi in salvo dal team di Hauptmann mentre il livello delle acque aumentava con una velocità di dieci centimetri al giorno. Nella primavera del 1992 Nevali Cori sparì, portando via con sé l’eco di presenze millenarie. Oggi nel Museo Archeologico di Sanliurfa, accanto ai reperti mozzafiato della vicina Göbekli Tepe, è possibile ammirare anche quelli non meno intriganti recuperati a Nevali Cori.
Il sito fu abitato dall’8600 all’8000 a. C., ciò significa che Nevali Cori è uno dei centri abitati più antichi di cui si abbia notizia. In seguito ai lavori di scavo di Hauptmann, vennero alla luce delle capanne più antiche di pianta rotonda e più di 20 edifici più “recenti” di pianta rettangolare e fondamenta in pietra che misuravano in media 18 x 6 metri e circa 2 m di altezza. Erano stati costruiti a una certa distanza l’uno dall’altro, come dei bungalow. Il tetto era fatto di travi di legno, canne e fango poggiato su una struttura in muratura. L’interno della casa standard era costituito da una stanza principale di abitazione e altre due o tre camere che espletavano la funzione di officine e/o magazzini per le provviste.
Sotto la pavimentazione della stanza principale, vi era un’ingegnosa rete di intercapedini, attraverso le quali circolava l’acqua del fiume Kantara e che costituiva, quindi, un sistema di climatizzazione anti litteram. Un’ottima soluzione, sia per gli abitanti che ne approfittavano nei periodi più caldi, sia per la conservazione delle provviste alimentari. I focolari erano posizionati fuori dalle case, all’aperto. Sotto la pavimentazione delle abitazioni furono trovati inoltre resti di sepolture, ad alcuni dei defunti era stata asportata la testa.
Anche un edificio di culto emerse dalle polveri dei millenni, una costruzione situata a sud-est dell’area abitata con pavimento a terrazzo, di pianta perfettamente quadrata e una lunghezza di 13 m. Soprattutto qui si evidenziò il collegamento stretto con la vicina Göbekli Tepe. Nel mezzo di questo santuario si ergeva infatti un enorme pilastro a forma di tau, proprio come quelli che caratterizzano i templi di Göbekli Tepe. Doveva trattarsi di genti che si riconoscevano nella medesima cultura.
Una decina di millenni fa, l’insediamento di Nevali Cori era circondato da ampi terreni fertili su cui sorsero i primi campi che costituivano la base economica di una popolazione di cacciatori sempre più dedita alla coltivazione di grano e spelta e all’allevamento del bestiame. Di quali animali si nutrivano gli abitanti di Nevali Cori? In base alle ossa ritrovate in situ, gli archeologi hanno rilevato la presenza di capre, pecore, manzi (gli stessi manzi che, un giorno, avrebbero “conquistato” l’Europa) e maiali. I resti fossili hanno segnalato tuttavia anche il grande consumo di selvaggina, che rivestiva un ruolo predominante nella dieta alimentare di queste genti. Cacciavano gazzelle, uri, cavalli, cinghiali, cervi e lepri. Stiamo parlando infatti del periodo di transizione da un tipo di società di cacciatori raccoglitori ad una basata in primis sull’economia agricola.
Stessi pilastri, un culto comune. Ma prevale la dimensione umana
Dunque, come ho scritto più sopra, il pilastro a forma di tau scoperti a Nevali Cori rappresenta la continuità del pensiero religioso-culturale di Göbekli Tepe. Anch’esso è antropomorfo. Osservandolo attentamente, si distinguono i rilievi delle braccia e delle mani. Anch’esso è acefalo. Ma altre sculture di Nevali Cori muovono un passo in altra direzione. Se i pilastri di Göbekli Tepe rappresentavano individui appartenenti a un’altra dimensione dal valore esclusivamente simbolico, le sculture di Nevali Cori mostrano invece individui più vicini, nella loro completezza, con volti umani, anche se ancora intrappolati nell’universo magico del sacro. Gli archeologi Thomas Voß e Michael Zech osservano a tale proposito:
“Le circa 700 figurine di terracotta scoperte a Nevali Cori evidenziano questo: 30 di esse rappresentano animali e 670 individui dalle sembianze umane suddivise, a parità di numero, in donne nude e uomini vestiti di una corta gonna. Figure di questo tipo suggeriscono un immaginario imperniato sullo sciamanismo, in cui, come a Göbekli Tepe, un ruolo predominante spetta ai serpenti e agli uccelli. ”
Figurine di terracotta trovate al di fuori delle abitazioni, in pozzi comuni, per lo più rotte, come se fossero state volutamente spezzate e gettate lì dopo aver perduto il loro valore, la funzione magica originaria. Le figurine femminili rappresentano sculture di donne incinte, donne con un bimbo in grembo, donne sedute. Tenendo conto della pari frequenza di immagini maschili e femminili, si potrebbe pensare che avessero avuto un significato allegorico, rappresentativo, usate nel corso di cerimonie religiose/magiche concernenti entrambi i sessi, come ipotizza l’archeologo Michael Morsch.
E chi mai avrà rappresentato la misteriosa testa umana trovata invece nella nicchia dell’edificio di culto? Più grande di una testa di grandezza naturale, di essa si è conservata soltanto la parte posteriore. Calva, liscia, attraversata da un serpente che striscia verso l’alto. Lo stesso serpente che così spesso appare sui pilastri di Göbekli Tepe. Il frammento di una ciotola di pietra calcarea è splendido e intrigante allo stesso tempo. Ornato da un rilievo che mostra individui dal grosso ventre, danzanti spalla a spalla accanto a tartarughe. Donne incinte? Il richiamo a un rito della fertilità? Nel medesimo edificio di culto vennero alla luce anche i frammenti di un’altra singolare scultura. Una sorta di palo-totem, formato da teste umane sormontate da un uccello. Un reperto unico nel panorama dell’archeologia preistorica in terra d’Anatolia.
Poi c’è un’altra testa, questa volta con un volto, denominata scherzosamente la “Monna Lisa di Nevali Cori” e misura circa 50 cm di altezza: la testa di una donna i cui capelli sono raccolti in una complicata pettinatura, forse tenuti insieme da una retina, sulla sommità del capo. E un’ulteriore sorpresa. Osservando con maggiore attenzione, sembra di riconoscere i contorni d un uccello che tiene fra le zampe il volto della Monna Lisa di Nevali Cori. Un altro volto, ancor più misterioso, rivela soltanto lineamenti schematici. Forse rappresentava una maschera usata durante le cerimonie sacre? Oppure il volto di un defunto?
Nevali Cori. L’importanza di questo sito è evidente, soprattutto in quanto testimone di quel fatidico passaggio dalla vita nomade dei cacciatori raccoglitori a quella sedentaria agricola degli allevatori di bestiame anatolici che, nel corso dei millenni, esportarono le loro tecnologie in Europa, dando luogo a quella che viene chiamata la “rivoluzione neolitica”. Dall’Anatolia alla Grecia, sino all’Europa centro-orientale, là dove si diffondeva la Cultura della ceramica lineare, là dove sorgevano le prime comunità agricole danubiane.
Ora Nevali Cori si nasconde sotto un ampio specchio d’acqua. Il terzo lago, per grandezza, della Turchia. In una vecchia intervista rilasciata alla rivista “Spiegel” nel 1991, il professor Hauptmann si dimostrava piuttosto ottimista. Si diceva convinto che, fra due o tre generazioni, gli agenti erosivi avrebbero messo fine alla funzione di contenimento della diga di Atatürk, liberando le acque. Nuove generazioni di archeologi avrebbero potuto riprendere i lavori a Nevali Cori. Ma la diga, una delle più grandi del mondo, il pomo della discordia fra la Turchia e le nazioni vicine nella feroce guerra per l’acqua e l’economia agricola, è ancora là. Nonostante l’erosione distrugga poco a poco le rive del lago che si sgretolano e precipitano nelle acque. E Nevali Cori aspetta.
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