Alchimia. L’arte segreta che fiorì nella lunghissima epoca medievale, affonda le sue origini nell’antico Egitto. Anzi, si potrebbe dire che questa disciplina costituisca, unitamente a riti e rituali sacri che mai potremo conoscere appieno, uno dei misteri delle Due Terre. Sono pratiche avvolte da un’aura di magia – gli egizi la chiamavano heka – che si svolgevano nelle stanze ombrose dei templi. Al solo cospetto dei sacerdoti. Almeno così vuole l’antica tradizione che fa risalire il termine “alchimia” al vocabolo egizio Kemet, nome con cui gli abitanti delle Due Terre designavano l’Egitto: Kemet. La Nera. Come la terra fertile e scura bagnata dal Nilo, fango che donava la vita.
Il primo alchimista era un egizio
…e questo egizio, che visse nel IV secolo dopo Cristo, si chiamava Zosimo di Panopoli (anche Akhmim o Chemnis, città situata nell’Alto Egitto). Della sua persona nulla sappiamo, mentre i suoi scritti, letti e diffusi soprattutto nel 900 d.C., erano oltremodo apprezzati in ambiente arabo. Anche il celebre alchimista Bolos di Mendes era un egizio (III secolo d.C.), per la precisione l’autorità alle radici dello scritto “Physika kai Mystika” dello pseudo-Democrito. Colui che narrò dell’iniziazione alchemica avvenuta nel tempio di Ptah, a Menfi. Resta un dato di fatto: i testi più antichi dell’Arte reale risalgono al II secolo d.C. e sono stati redatti in greco. Per questo motivo gli studiosi che si sono cimentati nella ricerca delle origini dell’alchimia a un certo punto si sono trovati di fronte al dilemma: Egitto oppure Grecia?
Una serie di indizi conduce all’Egitto. Innanzitutto il nome dei primi leggendari maestri dell’Arte reale, forse il più celebre di tutti e nominato da Zosimo: Ermete Trismegisto, noto anche come Thot, e poi ancora Peteisis, Phimenas, lo stesso Bolo di Mendes. Tutti egizi. Non solo. Gli scritti greci alchemici pullulano di nomi di divinità egizie, come quelli che compongono la celebre triade di Iside, Osiride e Horus. Non dobbiamo poi dimenticare ciò che scrisse il sacerdote Manetone nelle sue liste dei re d’Egitto: il faraone Suphis (in cui numerosi egittologi riconoscono Cheope, IV dinastia, ca. 2620 a.C.) aveva redatto un testo di alchimia. Se questo è vero, significa che l’alchimia fu praticata nelle Due Terre addirittura durante le prime dinastie.
L’egittologo Erik Hornung osserva a tale proposito che proprio la cultura egizia fu da sempre particolarmente legata alla pietra. È difficile dargli torto dopo essere stati di persona sull’altopiano di Giza e aver ammirato le tonnellate di pietra impiegate nella costruzione delle piramidi, della sfinge, dei templi e delle mastabe. Come osservò il professor Jan Assman, l’Egitto antico era uno “Stato di pietra” nel vero senso del termine. E la pietra filosofale riveste nelle discipline alchemiche un ruolo di primaria importanza. Sempre Erik Hornung cita in un suo saggio alcune frasi tratte da un decreto del dio Ptah e riferito al faraone Ramesse II. Un’iscrizione immortalata nello splendido tempio di Abu Simbel:
“Farò sì che le montagne ti donino imponenti e maestosi monumenti di pietra. Farò sì che i deserti ti donino tutte le pietre preziose su cui possano essere incisi documenti in tuo nome” (E. Hornung, Das geheime Wissen der Ägypter”)
Infatti al Nuovo regno risalirebbero le testimonianze scritte più remote di pratiche alchemiche, quelle che provengono direttamente da testi geroglifici. Particolarmente interessante è il fatto che nelle iscrizioni geroglifiche riportate nei templi di Dendera ed Esna si parli dell’abilità degli antichi egizi nel produrre materiali sintetici. Per esempio, pietre preziose sintetiche che avevano lo scopo di rimpiazzare, nei gioielli regali… le pietre vere.
Nelle stanze segrete dei templi e nelle cripte
In un’iscrizione apportata in occasione della consacrazione del tempio di Month, a Karnak, il faraone Amenophis III (1390 – 1353 a.C.) parlò della costruzione di un edificio sacro di arenaria “per tutta la sua lunghezza rivestito di oro djam, i portali di oro djam, ornato con pietre preziose, il pavimento di oro nebui, le ante delle porte realizzate in legno di cedro e con rame asiatico.” Considerando che gli egizi usavano il termine oro djam per indicare una lega di oro e argento, e oro nebui per indicare l’oro puro.
L’oro scintillante e indistruttibile, il materiale di cui erano fatti i corpi degli dei, il simbolo del sole, e pietre preziose a perdita d’occhio, tra cui turchesi e lapislazzuli, appaiono in una lista dettagliata che riporta i materiali utilizzati dal faraone Amenophis per la costruzione del tempio. Le quantità, indicate accanto ai preziosi, rispecchiano cifre da capogiro. C’è quindi da chiedersi: ma saranno stati tutti materiali autentici, oppure talvolta prodotti in laboratorio?
E poi vi è un indizio di grande importanza in merito alla pratica di trasformazione degli elementi: la stanza del tempio di Dendera (circa 50 km a nord di Luxor) che fungeva da laboratorio dei sacerdoti. Questa veniva chiamata “casa dell’oro”, serviva alla fabbricazione di oggetti di culto ed era ambito esclusivo del dio Thot, vale a dire, Ermes Trismegisto. È la stessa dea Hathor, signora di Dendera, che rivolgendosi a Thot gli dice:
“Ricevi i materiali preziosi delle montagne per compiere tutte le opere nella casa dell’oro.”
Secondo i misteri di Osiride, nelle stanze segrete del tempio di Dendera avveniva un rituale sacro della trasmutazione di cereali in oro. E non dimentichiamo che proprio nei sotterranei del tempio di Dendera si trovano le misteriose cripte dalle incisioni geroglifiche bizzarre che ancora oggi fanno discutere esperti e profani: le famose “lampade”. Sono state suggerite differenti interpretazioni di quelle raffigurazioni dal sapore criptico.
A prescindere dalle ipotesi più avventurose che riconoscono negli oggetti in questione delle vere e proprie lampadine elettriche anti litteram, alcuni egittologi hanno identificato nelle strane forme dei fiori di loto, altri (personalmente mi unisco a questi ultimi) le misteriose steli del serpente, che già appaiono accanto ai monumenti funerari delle prime dinastie. Tuttavia bisogna dire, a onor del vero, che tutte queste letture restano pur sempre interpretazioni prive di prove decisive, e quindi ipotesi.
Nel tempio di Edfu (Alto Egitto), un altro sito denso di storia, si parla di Horus come del dio che “formò le montagne e creò le pietre preziose”. Le iscrizioni del laboratorio situato nel tempio di Edfu e risalente all’epoca tolemaica riportano numerose ricette per la produzione di incenso e olio di salvia, ingredienti da utilizzare per la purificazione delle statue sacre. I testi recitano: “Si tratta di un segreto che non può essere visto o udito da nessuno.”
Ed Erik Hornung scrive:
“Bisogna cucinare diverse misture e poi lasciarle riposare per due giorni come nei testi alchemici più tardi, e nel settimo giorno di cottura è necessario aggiungere all’olio di salvia delle pietre preziose tra cui oro, argento, lapislazzuli, diaspro rosso, verde feldspato e corniola, i quali devono essere tutti polverizzati con cura. Questa è alchimia nel vero senso del termine, e già nel II secolo dopo Cristo!” (E. Hornung, ibidem)
Forse per questo motivo l’alchimia negli antichi scritti arabi è descritta come “la scienza dei templi egizi”? Gli studiosi arabi narrano che i maestri dell’alchimia Zosimo ed Ermes/Thot riportarono le loro iscrizioni occulte nelle cripte dei templi. Il testo segreto di Zosimo sarebbe stato inciso nella città di Akhmim e occultato sotto la lastra di marmo di una tomba sotterranea; mentre il secondo testo si sarebbe trovato nel tempio di Dendera sotto una statua di Artemide, occultato in una cripta.
Thot, Osiride e il Corpus Hermeticum
Dunque sempre la cripta come eterno leit motiv, come luogo dei segreti. Una cavità ricavata dalla mano dell’uomo nel cuore della terra, in cui la luce naturale non può giungere. Si operava al chiarore delle fiaccole o dei lumi a olio. Laddove l’occhio del profano non poteva sconsacrare l’opera occulta del maestro alchimista. La palma del maestro tre volte grande spetta a Thot/Ermes, che gli egizi avevano accolto nel loro pantheon tra gli dei, facendone il signore della saggezza e delle parole segrete. La tradizione araba conosce addirittura tre Ermes: il primo sarebbe vissuto in Egitto prima del diluvio universale e avrebbe costruito un tempio ad Akhmim; il secondo visse dopo il diluvio nel Basso Egitto e fu il maestro di Pitagora; il terzo visse anche in epoca postdiluviana, nella città di Misr (Cairo) e scrisse un trattato alchemico.
Ma anche il dio Osiride è strettamente legato all’alchimia. Anzi, Zosimo definiva il processo alchemico proprio come “osiridificazione” Di certo l’alchimista si rifaceva all’antichissima tradizione dei Testi delle piramidi, che videro la luce nelle prime dinastie e attribuivano al corpo morto di Osiride dei poteri sovrannaturali di rinascita e rigenerazione. La putrefazione non è che uno dei passaggi principali del processo alchemico di trasformazione. E così è descritto, nei testi del Nuovo regno, Osiride disceso nell’oltretomba. Da lì, dopo essersi putrefatto, il corpo del dio rinasce rinvigorito e splendente e torna alla superficie avvolto nel manto del sole.
Ancora un passaggio importante dal saggio di Erik Hornung:
“La fabbricazione di una statua della mummia veniva concluso nell’Egitto antico con la cerimonia dell’apertura della bocca che doveva trasmettere la capacità di utilizzo di tutti i cinque sensi. Questo rituale, con cui ogni opus degli antichi egizi veniva conclusa, nell’alchimia viene sostituito dall’unione dei quattro elementi. Nella Tabula Smaragdina, il sole, la luna, il vento e la terra sono i quattro elementi terrestri cui si aggiunge la quintessenza, il quinto elemento. (…)”
Osiride, una divinità dal carattere evidentemente alchemico, il dio la cui testa veniva particolarmente venerata e conservata come una reliquia nel tempio di Aibdo. In quel luogo dell’Alto Egitto in cui oggi si trovano i resti monolitici del misterioso Osireion. L’alchimista Zosimo scriveva: “E tutti gli elementi vengono mescolati insieme, e tutti gli elementi vengono sciolti, e tutto si unisce di nuovo, e tutto si mescola di nuovo.”
Alchimia. Trasformazione e rinascita. Il “Corpus Hermeticum”, una raccolta di cui ci sono rimasti 18 trattati, fu redatto alla fine del II secolo d.C. e sarebbe divenuto il testo principe degli umanisti cinquecenteschi appassionati di arti occulte. Ma già nel I secolo circolava uno scritto in egizio demotico che portava il titolo di “Libro di Thot”. Ne è rimasta traccia in numerosi papiri. Si tratta di un dialogo di Thot e Osiride con un discepolo. I temi sono di forte carattere esoterico: la geografia sacra d’Egitto, l’oltretomba, le lingue criptiche e i misteri sacri.
Imhotep e la tomba che non c’è
Lasciamo ora gli dei e torniamo con i piedi per terra. Il primo redattore di un testo scritto di saggezza, ancor prima di Cheope, fu Imhotep. L’architetto del faraone Djoser. Colui che per tanti anni si credette un personaggio leggendario. Almeno fino al 1920, quando l’egittologo inglese Cecil Firth trovò la base di una statua appartenente al faraone Djoser (III dinastia, ca. 2650 a.C.) che recava i nome e i titoli di Imhotep. Sarebbe questo l’unico caso noto in cui il nome di una persona non appartenente alla famiglia reale fu scolpito ai piedi della statua di un re. A meno che… Imhotep non fosse un parente del sovrano, cosa che al momento non possiamo escludere ma nemmeno confermare. Nonostante vi siano diversi indizi piuttosto pesanti in questo senso.
La base della statua si trova oggi all’ Imhotep Museum di Sakkara. I titoli che accompagnano il suo nome sono i seguenti: Sedjauti-Bjti, custode dei sigilli del re, titolo che durante la III dinastia veniva dato ai principi e che farebbe quindi pensare a un’origine nobile di Imhotep; Cheri-tep-nesu, colui che si trova sotto la testa del re, un titolo dal significato attualmente oscuro; Iri-pat, membro dell’élite, una definizione che secondo l’egittologo Wolfgang Helck conferma l’appartenenza di Imhotep alla famiglia reale (e io sono assolutamente d’accordo con lui); Heqa-hut-aa, amministratore dei beni; Maa-wr, colui che guarda il grande, titolo che più tardi avrebbe definito il gran sacerdote di Eliopolis. Insomma, una persona sicuramente molto importante.
Alcuni dei titoli presenti sul piedistallo della statua di Djoser vengono confermati da altri reperti indipendenti, come un sigillo trovato nella piramide del medesimo faraone, un graffito sulla piramide di re Sechemchet (costruzione che viene attribuita anch’essa all’ingegno di Imhotep) e altre iscrizioni su recipienti e vasi. In ogni caso, da quando fu scoperto il frammento di statua di Djoser l’architetto Imhotep divenne un personaggio storico a tutti gli effetti. E non era soltanto un architetto, come abbiamo visto, bensì anche sacerdote. I geroglifici lo definiscono: sacerdote dell’Ordine dell’Ibis. E sappiamo bene che l’ibis era uno degli animali-simbolo del dio Thot.
A partire dalla XXVI dinastia, Imhotep fu venerato a Menfi alla stregua del dio della medicina Asclepio. Perché a Menfi? Perché secondo la leggenda la sua tomba si trova presso l’antica città di Menfi, nella necropoli di Saqqara. Non lontano dalla piramide di re Djoser, il suo capolavoro in pietra. Fino ad oggi l’ultima dimora di questo affascinante personaggio fra storia e mito non è ancora stata ritrovata, nonostante fosse uno degli obiettivi più ambiziosi di numerose missioni archeologiche, sin dagli anni Sessanta del secolo scorso.
Per l’Egitto predinastico e protodinastico, rimando al mio saggio „Prima di Cheope“ edito da Nexus Edizioni, 2013.
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