Anatomia di una frase in codice

 

 

Et in Arcadia ego. L’iscrizione latina di un monumento funerario dipinto dal pittore francese Nicolas Poussin sarebbe passata inosservata per sempre, se la mitologia del Priorato di Sion non l’avesse collegata all’affare di Rennes-le-Château. E mentre il segreto di Rennes continua a fluttuare fra realtà e leggenda, la regione montuosa dell’Arcadia invece è ben reale e si trova in Grecia, nel cuore del Peloponneso. Qual è allora il legame tra l’Arcadia greca e il paesaggio montagnoso del Midi dipinto da Poussin?

Solamente il gusto del neoclassicismo, la corrente artistica cui il pittore apparteneva? No, c’è dell’altro. Qualcosa di più profondo e segreto che si nasconde proprio oltre il termine Arcadia. Un filo sottile e magico, che dal Rinascimento passò attraverso l’Illuminismo per raggiungere incolume il Romanticismo ottocentesco. Si manifestò nelle opere artistiche e letterarie, nelle visioni di un gruppo di intellettuali imbevuti di occultismo. Quello era il suo aspetto visibile. Poi c’era il lato nascosto, il segreto di un pensiero poco ortodosso, di un universo magico e gnostico, la faccia oscura della luna. Quella che trapela dal dipinto di Poussin. Ma perché gli artisti – ed esoteristi – scelsero proprio il simbolo dell’Arcadia?

L’Arcadia greca, che nel 146 divenne parte dell’Impero romano, era una vasta regione nel cuore del Peloponneso. Un territorio montuoso abitato dai misteriosi Arcadi, discendenti di Pelasgio. Di lui raccontò il poeta Esiodo (ca. VIII a. C.), che lo definì abitante autoctono d’Arcadia e il geografo Pausania (II secolo d. C.) era convinto che Pelasgio fosse un re. In ogni caso, la tradizione degli Arcadi riconosceva in Pelasgio il portatore della cultura, colui che avrebbe costruito il primo tempio consacrato a Giove. E proprio a Giove fa riferimento il mito di Arkas, successore di Pelasgio e progenitore degli Arcadi.

I pastori d'Arcadia, Nicolas Poussin, ca. 1640. Museo del Louvre.

I pastori d’Arcadia, Nicolas Poussin, ca. 1640. Museo del Louvre. Al centro del monumento funebre, accanto alle dita dei pastori, appare l’iscrizione: Et in Arcadia ego. . Dominio pubblico.

È una leggenda nel segno dell’orsa. Arkas nacque dagli amori illeciti di Giove e della ninfa Callisto. La relazione provocò l’ira di Giunone, consorte di Giove, la quale trasformò Callisto in orsa. La ninfa fu condannata a vagare per sempre nelle fitte foreste. Nel frattempo il piccolo Arkas crebbe e diventò adulto, un giovane cacciatore. Mentre Arkas inseguiva un animale nei boschi dell’Arcadia, s’imbatté in un’orsa. Già era pronto a colpirla con le sue frecce mortali, quando l’orsa gli si gettò ai piedi: era Callisto, che cercava di farsi riconoscere dal figlio.

Ovviamente Arkas non sapeva nulla della trasformazione della madre, quindi non poteva riconoscerla. Stava per ucciderla, quando intervenne Giove. Impietosito, il signore dell’Olimpo trasformò anche il giovane Arkas in orso e poi fece salire madre e figlio al cielo, lasciandoli vivere eternamente l’una accanto all’altro fra le stelle, nelle costellazioni dell’Orsa maggiore e dell’Orsa minore. Una leggenda dai tratti drammatici e poetici, l’amore nelle sue forme diverse e, allo stesso tempo, un espediente dell’eterno donnaiolo Giove per lavarsi la coscienza sporca.

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I pastori d’Arcadia, Nicolas Poussin. Prima versione del 1630. In primo piano la figura dell’uomo seduto con l’otre d’acqua nella mano simboleggia Alfeo, il fiume sotterraneo della tradizione segreta. Sul sarcofago appare l’epitaffio: Et in Arcadia ego. Dominio pubblico.

Molto più cruento è invece il mito di Licaone. Il re della dinastia degli Arcadi aveva 50 figli, uno più crudele dell’altro. Tant’è vero che un giorno questi invitarono Giove a un banchetto e poi ebbero il coraggio e la scelleratezza di servigli le membra di un bambino. Evidentemente Giove non apprezzò l’idea. Furente, uccise Licaone sull’istante e tramutò i 50 figli in lupi. Dal nome di Licaone deriva il termine licantropia, malattia immaginaria che avrebbe il potere di trasformare gli esseri umani in lupi nelle notti di luna piena. I cosiddetti lupi mannari, racconta la tradizione leggendaria, si nutrirebbero di carne umana, come fecero un tempo i figli di Licaone.

Passioni illecite, orsi, lupi e cannibalismo. Un mondo selvaggio dominato dagli istinti primordiali, quest’Arcadia più antica. A ciò si aggiunse il mito di amore e morte di Virgilio (70 a. C. – 19 a. C.), sommo poeta latino. Ed ecco la prima tomba d’Arcadia, che interrompe l’idillio del paesaggio naturale, apparire nelle sue Egloghe. Qui, per la prima volta, si parla di un monumento funerario con un epitaffio: il monumento del pastore Dafni. (Egloga V, v. 42). Il giovane, narra la leggenda, che era figlio di Ermete e di una ninfa, si gettò per amore non corrisposto dall’alto una roccia.

Altre leggende raccontano che fu il dio Pan, signore d’Arcadia, a innamorarsi del bel pastore Dafni. Pan gli avrebbe insegnato a suonare il flauto con maestria, ma alla fine il giovane Dafni fece una brutta fine: fu tramutato in roccia. Come vediamo, l’universo mitologico è uno spazio infinito e caotico, in cui le leggende s’intrecciano l’una con l’altra, si fondono e confondono. È la legge delle tradizioni orali di origini molto antiche. Spiccano però, da questi racconti d’Arcadia, nomi illustri e cari agli occultisti: Ermete Trismegisto, il dio Pan. Già s’intravede la sagoma trasparente di quella simbolica segreta, misterica, imperscrutabile che anima il mito.

L’Arcadia e l’Età dell’oro

Più tardi, filtrata attraverso la poesia rinascimentale, l’Arcadia divenne un paesaggio bucolico, una sorta di paradiso terrestre. Ma non era un paradiso cristiano. L’Arcadia non fu mai cristiana, conservò per sempre il suo carattere pagano e libero delle origini. Fu piuttosto un’utopia al di là delle credenze religiose, un luogo dei sogni in cui elitari pastori – che erano al contempo musici e poeti – incontravano belle ninfe irraggiungibili, il regno del carnale Pan e del suo flauto incantato.

Fu l’età d’oro dell’immaginario collettivo rinascimentale. Il ritorno all’Arcadia era il ritorno alle origini dell’uomo. Ma anche il ritorno all’universo magico del dio Pan, satiro lascivo, divoratore di coscienze e istigatore al peccato. La divinità maschile cornuta dalle zampe caprine era tutt’uno con Bacco, signore delle Menadi, colui che nell’intollerante mondo cristiano divenne il prototipo dell’immagine del Diavolo. Ebbene, l’Arcadia era anche il suo regno. Solo considerando l’Arcadia da questo punto di vista, possiamo intuirne l’importanza negli scritti dei letterati imbevuti di esoterismo, nei miti che ruotavano intorno alla corrente segreta dei maghi rinascimentali, degli occultisti ottocenteschi e, non di meno, del Priorato di Sion.

Jacopo Sannazaro, poeta napoletano del XV secolo, intitolò il suo romanzo pastorale Arcadia e raccontò anch’egli la storia di un amore infelice. Anche qui c’era un pastore, anche qui c’era una ninfa innamorata, ed è proprio la morte di questa a irrompere nel paradiso d’Arcadia. Ma la tomba dinanzi a cui si sofferma il triste pastore privato della sua ninfa, è quella dell’amico Androgeo. Altro elemento molto interessante nell’opera di Sannazaro è costituito da un fiume sotterraneo. Questo appare sulla prima versione del dipinto Pastori d’Arcadia di Nicolas Poussin. Interessante, perché? Perché il fiume sotterraneo Alfeo era il simbolo della corrente segreta.

Con il suo componimento, Sannazaro aveva inaugurato un nuovo genere poetico, quello della poesia bucolica, che incontrò largo consenso presso il pubblico colto dell’epoca e che i circoli ermetici non tardarono ad adottare per divulgare i loro messaggi in codice. Parallelamente allo sviluppo e alla diffusione del tema d’Arcadia, furono fondate in Italia le diverse Accademie di eruditi, nelle quali non si discuteva soltanto di arte e letteratura, ma anche di magia, alchimia, culti proibiti, eresie. Luoghi d’incontro e scambio per menti aperte, lungimiranti, che non si lasciavano soffocare dai dogmi ecclesiastici. Marsilio Ficino, fondatore della celebre Accademia Platonica, tradusse il Corpus Hermeticum di Michele Psello, una raccolta di scritti magico – filosofici giunta dall’Oriente. Il successo delle Accademie perdurò nei secoli seguenti. Vi confluirono gli ingegni più brillanti come Giordano Bruno, Galileo Galilei, Tommaso Campanella.

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Et in Arcadia ego. Antico esemplare della Hypnerotomachia Poliphili, stampato da Aldo Manuzio per la prima volta nel 1499, a Venezia. Dominio pubblico.

Tutto un mondo in gran parte impenetrabile e intessuto di simboli e leggende costituisce la facciata esterna della corrente d’Arcadia. Opere più che misteriose sono ambientate nell’Arcadia, come la Hypnerotomachia Poliphili. Il singolare libro a stampa fu edito a Venezia nell’anno 1499, nella prestigiosa tipografia dell’erudito Aldo Manuzio. Illustrato con moltissime immagini di squisita fattura, il volume era un’opera assai costosa, e tuttavia andò a ruba negli ambienti colti del Cinquecento. Ufficialmente si trattava di una storia d’amore (Hypnerotomachia Poliphili significa Battaglia d’amore in sogno di Polifilo), in realtà ogni sua immagine costituisce un rebus, ogni sua parola una sfida, ogni frase un enigma. Si tratta di uno scritto in codice che nessuno, all’infuori dei pochi iniziati di allora, è mai riuscito a decifrare. Il significato del libro continua a serbare il suo segreto.

Il segreto di Leonardo e di Guercino

Sia il re Francesco I di Francia che il pittore e incisore tedesco Albrecht Dürer, possedevano una copia del libro. Anche il genio eclettico Leonardo da Vinci. E mentre il filosofo Ficino traduceva dal greco gli scritti di Ermete Trismegisto su incarico della famiglia Medici e gli altri studiosi dell’Accademia toscana approfondivano le loro conoscenze di magia ed alchimia, Leonardo dipingeva soggetti inquietanti che pullulavano di simboli tratti dall’iconografia gnostica e mettevano in evidenza soprattutto Giovanni Battista e il suo indice destro alzato. L’indice che puntava sul Graal e sulla corrente segreta. Leonardo morì in Francia nel castello di Amboise, tra le braccia di re Francesco I. Vicino al suo capezzale c’erano la Gioconda, la tavola ad olio di Giovanni Battista che oggi si può ammirare al Louvre e una copia della Hypnerotomachia Poliphili (questo esemplare viene oggi custodito al Museo del Louvre).

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Et in Arcadia ego, Guercino 1621- 1623. In primo piano appare la tomba su cui poggia il cranio umano. Sul bordo del monumento funebre si può leggere l’iscrizione Et in Arcadia ego. Interessante anche il particolare del moscone posato sull’osso frontale che ricorda una trapanazione rituale. Dominio pubblico.

Il pittore d’Arcadia Nicolas Poussin dipinse due tele sullo stesso tema: I pastori d’Arcadia (Les Bergeres d’Arcadie). La prima intorno al 1630, e la seconda intorno al 1640. Ma non fu il primo immortalare il mito della morte nel paradiso degli dèi. Tale primato spetta a un italiano, il Guercino.Tra il 1621 e il 1623, il pittore Gian Francesco Barbieri detto il Guercino aveva portato a compimento il dipinto Et in Arcadia ego. Due pastori avvolti nel chiarore crepuscolare dell’alba – o della sera – osservano melanconici un cranio umano appoggiato su di una costruzione di pietra, sotto le fronde di un albero. Un topo è intento a rosicchiare il teschio e un grosso moscone posa sull’osso frontale. Sul bordo del sarcofago campestre appare per la prima volta l’iscrizione latina Et in Arcadia ego. I resti di un monumento funebre in Arcadia. L’eco di Sannazaro.

Ma la produzione artistica del Guercino ci riserba un’altra sorpresa. Pochi conoscono l’esistenza di un disegno misterioso la cui datazione esatta ci sfugge. Il prezioso cartone si trova oggi in possesso di una loggia massonica di cui, per riservatezza, non farò il nome. Anche qui il pittore rappresenta una scena immersa nella natura. Alla destra dello schizzo si eleva una costruzione compatta in mattoni che sembra una tomba. In primo piano si vede un gigante che giace, probabilmente privo di vita, al suolo. Un giovane si curva sulla salma reggendo tra le mani un bastone: vuole prendere le misure del corpo morto. Sulla sinistra ci sono tre uomini che si sporgono da un muretto, intenti a osservare il defunto. Due di essi portano un turbante. Uno protende il braccio verso la salma munito di compasso, un altro resta immobile a guardare, il terzo alza le braccia al cielo e grida, pieno d’orrore. Che voleva rappresentare l’artista italiano con tale immagine e come mai oggi il disegno è in possesso di una loggia massonica?

La leggenda più segreta di Hiram Abif, architetto del tempio di Salomone che morì ucciso da uno dei suoi allievi. Lo indica un macabro dettaglio. Allorché i discepoli più fedeli, scoperto il cadavere del loro maestro abbandonato nella campagna, si accinsero a seppellirlo, si accorsero che il corpo di Hiram era troppo grande per essere inumato nel luogo deputato. Per questo motivo si videro costretti ad asportarne la testa e parte delle gambe. Un tipo di sepoltura rituale, che fu talvolta adottata con le salme dei dignitari dell’Ordine del Tempio. Si riferisce a questo episodio la scena rappresentata dal Guercino? La misurazione di Hiram, gigante tra gli architetti della sua epoca, effettuata dagli allievi prima del seppellimento? Quando gli chiedo dei ragguagli, lo storico dell’arte Denis Mahon, esperto del Guercino, rimane piuttosto vago.

È chiaro che, dato il periodo in cui l’opera fu realizzata – tra il 1591 e il 1666 -, non si possa definirla di carattere massonico. Sappiamo infatti che gli inizi ufficiali della massoneria risalgono soltanto al XVIII secolo. Ma è altrettanto noto che le confraternite dei maestri costruttori esistevano già centinaia di anni prima, che l’arte del costruttore veniva tenuta sin dal Medioevo nella massima considerazione, e così pure la leggenda di Hiram Abif. Non è possibile ignorare gli intriganti riferimenti del disegno alla vicenda di Hiram: gli strumenti da costruttori e architetti nelle mani dei personaggi, la presenza di un sepolcro in ambiente campestre, i turbanti che portano due degli uomini e che ci rimandano al luogo in cui vide la luce il biblico Hiram Abif: la città di Tiro.

La tomba d’Arcadia potrebbe, quindi, simbolizzare la presenza del Maestro morto. Et in Arcadia ego sono forse le parole del fenicio Hiram? Anch’io sono qui, sepolto in Arcadia? Io, con tutta la mia sapienza e con tutti i miei segreti? Negli ultimi anni numerosi rennologisti (così vengono definiti i ricercatori che si occupano dell’affare di Rennes-le-Château) hanno supposto che la tomba dipinta da Poussin simbolizzi la tomba di Gesù. Nulla di più sbagliato. Non c’è posto per Gesù Cristo nel paradiso primordiale dell’Arcadia, ma piuttosto per il pagano Hiram Abif, l’architetto del tempio. E tutti i suoi seguaci.

Per approfondire il tema Graal e Templari, rimando alla lettura del mio saggio „L’Eresia templare“ edito da Venexia Edizioni, 2008.

 

 

 

Per approfondire il tema Priorato di Sion, vedi il mio saggio „Il Serpente Rosso“.

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