Un bush camp nella Valle del Luangwa

 

 

Bush camp. Il silenzio non esiste. Soltanto dopo essere stati in giro per mesi nella savana con fuoristrada e tenda, si capisce che il silenzio inteso come totale assenza di rumori è qualcosa di artificioso. La natura non è fatta soltanto di colori, odori e luce, ma anche di rumori. E in Africa i rumori sono costantemente presenti. Anche durante la notte. Manifestazioni di vita. L’Africa non dorme mai. Stesi nel sacco a pelo, l’orecchio vicino alla tela della tenda, si sentono versi di animali, rami spezzati, stridio di cicale, scorrere dell’acqua, eventualmente il battito della pioggia. Tutto vicino, a portata di mano.

Bush africano. Di rumori e silenzi

Invece noi europei, abituati a vivere nelle grandi città, chiusi nelle case come in piccole fortezze urbane, sradicati dalla natura e assordati dal rumore del traffico, ci illudiamo di trovare pace nel silenzio della notte. In una mancanza di rumori innaturale, assicurata da porte e finestre ben chiuse. Crediamo di dormire in un’oasi di pace. Ma non è altro che un surrogato di vita. Poi, un giorno, si fa un viaggio fuori dall’ordinario. Si va in Africa. Non in un grande albergo di Città del Capo. Con la tenda, on the road. Si sale in macchina armati di mappe, lampade tascabili e provviste, si va a esplorare la savana. E lì, durante la prima notte passata all’aperto, si sentono i rumori della natura che non dorme mai.

Ippopotamo nel fiume Luangwa, in Zambia. Copyright Sabina Marineo

Ippopotamo nel fiume Luangwa, Zambia. © Sabina Marineo

È una rivelazione. Versi di animali così vicini, che s’immagina di poterli toccare con un dito. Alcuni facilmente individuabili, come il ruggito dei leoni, altri meno noti, più esotici, inconsueti, strani. La prima notte ci si sente circondati. Oddio, si pensa, ora sono qui, tanto piccolo nell’immensità della savana e solo, mentre loro sono tanti, dappertutto, i padroni della notte. Nel buio non li vedo. Ma li sento. Buio? Quale buio? Nemmeno quello esiste laggiù. La notte senza luna è di certo meno luminosa di quella in cui il chiarore argenteo si diffonde su sabbia, arbusti e sulle tozze acacie. Ma non è mai buio completo.

Un mondo sconosciuto respira sotto una cupola di stelle. Perché anche il cielo, visto laggiù al Tropico del Capricorno, non ha niente a che fare con il nostro delle città europee. In Africa si comprende l’espressione “volta celeste” nel suo pieno significato: una superficie curva, concava, la cupola di un gigantesco planetario, un’immensa volta di velluto nero piena di stelle. Milioni di stelle luminose, così tante stelle, come non ne avevo mai viste in vita mia. Come le vedevano i nostri antenati nelle notti della preistoria. Il silenzio non esiste, il buio non esiste e la solitudine nemmeno. Siamo tutt’uno con la natura. L’Africa è lì a ricordarcelo, se solo vogliamo conoscerla e ascoltarla.

A piedi nella Valle del Luangwa

Siamo arrivati al Chibembe Bush Camp durante un viaggio nello Zambia orientale. La nostra meta: il Parco Nazionale di South Luangwa. Una riserva naturale fantastica e incontaminata di circa 9000 chilometri quadrati, nella quale, a prescindere dalla grande quantità e varietà di mammiferi, si contano 400 specie differenti di uccelli. Un vero paradiso per gli ornitologi che arrivano da tutte le parti del mondo. Nel parco nazionale c’erano numerosi camp, tutti situati lungo le rive del fiume Mwaleshi, ed era possibile anche organizzare dei walking safari. Un’ottima occasione per lasciare la macchina parcheggiata alla piazzola del campo e andare in giro a piedi per la savana insieme a un ranger del posto.

Degli elefanti fanno il bagno nel Luangwa. Copyright Sabina

Due elefanti fanno il bagno nel Luangwa. © Sabina Marineo

Il bello era che nel Chibembe camp si poteva anche fare a meno di montare la tenda, perché si pernottava in piccole capanne fatte di legno e materiali naturali. Ovviamente l’arredamento era abbastanza spartano: niente finestre, soltanto uno spazio perimetrale aperto fra pareti e tetto, due brandine da campo provviste di zanzariera, comodino centrale con lume a olio e un paio di candele di riserva, due sedie, tavolino traballante, un vecchio armadio senza porta, specchio appeso alla parete e bacinella d’acqua per lavarsi la faccia. Di più non serviva.

Perché in Africa la giornata comincia molto presto e il tramonto del sole arriva altrettanto presto. Quindi appena albeggia ci si alza, ci si lava e ci si veste. Un caffè bevuto in fretta sulla terrazza in riva al fiume. Contemplare l’acqua placida, le prime scimmiette che scendono dagli alberi per andare ad abbeverarsi, ascoltare i canti degli uccelli che irrompono nel mattino. Vedere il cielo tingersi di viola e rosso e poi di quell’azzurro intenso che non conosce pioggia. Infine il primo sorriso del disco del sole che s’innalza giallo, accecante, in tutta la sua bellezza. Si scambiano due parole in inglese con il ranger e poi si va tutti insieme, in silenzio. Si percorrono le vie di una savana che si sta riscaldando.

Le scarpe affondano nella polvere dei sentieri naturali scavati dagli animali, si muovono fra le pietre sbiadite dai raggi solari su cui dormono grosse lucertole colorate di giallo, rosso e blu. Si cammina in fila indiana, uno dietro l’altro, per meglio controllare la situazione. In silenzio, per non spaventare gli animali. La voce umana non trova posto in quella situazione. La natura è sacra. Per me è più sacra di una chiesa, più imponente di una cattedrale gotica. Maestosi sono gli elefanti che incrociano la via e se ne vanno in gruppo, muovendo piano le grandi orecchie come ventagli, fiutando l’aria con le sensibili proboscidi. Sono enormi, eppure il loro passo è aggraziato. Sembrano camminare sulle nuvole.

Il bush africano nella Valle del Luangwa. Copyright Sabina Marineo

Il bush africano nella Valle del Luangwa. © Sabina Marineo

Impressionanti sono i branchi di leoni dagli occhi gialli che sonnecchiano all’ombra di un’acacia spinosa o di un imponente tamarindo dalle piccole foglie verdi appena mosse dalla brezza mattutina. Di lontano appare il collo interminabile di una giraffa con il muso sprofondato nella corona di un albero. Sta divorando i rami stesi nell’azzurro del cielo. Un gruppo di gazzelle va ad abbeverarsi allo stagno. Il tempo si è fermato.

“Stasera non fumo”

Quella sera, quando siamo tornati al campo, abbiamo trovato un tripudio di scimmie chiacchierone che saltavano da un albero all’altro alla ricerca di frutti. Il loro pelo color del miele luccicava sotto i raggi di un sole basso, prossimo al tramonto. Abbiamo fatto una rudimentale doccia – un tiro alla fune che penzola dall’alto, il secchio si capovolge e l’acqua fredda ti si rovescia addosso – e ci siamo cambiati per la cena. Lusso puro. Una doccia nella savana non è cosa da poco. Abbiamo acceso un bel fuoco, preparato grill e bistecche e c’era pure la classica bottiglia di vino rosso. Poi abbiamo mangiato sotto il cielo di velluto nero trapunto di stelle.

Alla fine della cena mio marito ha detto “Accidenti, ho dimenticato le sigarette in macchina.” E senza sigarette non poteva proprio stare. Si è alzato dalla sedia. “Prendi la lampada tascabile,” gli ho suggerito “altrimenti al buio non vedi niente.” Ma lui ha riso “Certo che ci vedo, non ho bisogno di nessuna lampada.” OK. È andato. Intanto era calato il buio. Quello di una notte senza luna. È iniziato il coro dei ranocchi. E alcuni uccelli, che prima avevano taciuto per un paio d’ore, hanno ripreso a cantare e a lanciare i loro versi nella notte. Da un momento all’altro, centinaia, migliaia di uccelli si sono uniti al canto. Non avevo mai sentito nulla di simile. Una musica forte, bizzarra, assordante.

Dal buio è emersa un’ombra. Era mio marito che tornava a sedersi in tutta fretta sulla sedia da campo. Senza sigarette. Senza accendino. “Stasera non fumo” ha detto. “Ma che faccia hai,” ho osservato “è successo qualcosa?” Raccontò di aver raggiunto la macchina. Stava per aprire lo sportello del fuoristrada e allungare la mano in cerca delle sigarette, quando sentì un rumore di fogliame sopra la sua testa. Alzato lo sguardo, si trovò a pochi centimetri di distanza da un elefante che divorava con gusto la fronda dell’albero penzolante sulla nostra macchina. Nel buio il pachiderma scuro risultava pressoché invisibile. Mio marito balzò via veloce come un fulmine. Si precipitò al nostro tavolo, nella rassicurante luce della lampada a gas. “Te l’avevo detto, io, di prendere una lampada” risi. Anche lui rise. Ma quella sera non fumò più.

Valle del Luangwa, Zambia. Copyright Sabina Marineo

Valle del Luangwa, Zambia. © Sabina Marineo

La prima notte nella capanna del Chibembe camp fu qualcosa di particolare proprio per la quantità incredibile di presenze animali che facevano sentire la loro voce. Bisognava farci l’abitudine. Innanzitutto i ranocchi. In quella zona in riva al fiume ce n’erano a bizzeffe. Non avevano nessun problema a entrare nella capanna attraverso lo spazio aperto fra pareti e tetto, ad infilarsi sotto la zanzariera e nel letto. Prima di addormentarmi, dovetti toglierne un paio dai miei capelli. Si erano perduti in mezzo ai ricci come tra le fronde di un albero di mopane.

Ma la cosa più difficile era addormentarsi con quella musica a tutto volume prodotta dagli uccelli. Cantavano, urlavano, starnazzavano, stridevano, cigolavano, cinguettavano, gracchiavano, ciangottavano, fischiavano, bubolavano. Insomma, una sarabanda d’inferno. Mi sembrava di trovarmi in una discoteca naturale. Impossibile dormire. Soltanto più tardi, quando la notte si fece più fresca e profonda, i canti degli uccelli si affievolirono, fino a scomparire del tutto. Si sentì invece, molto vicino, il grugnito degli ippopotami che abbandonavano il fiume e pascolavano fra le capanne del Chibembe camp come enormi mucche placide (almeno fino a che un malcapitato non incrociasse il loro passaggio). Poi risuonò il ruggito lontano di un leone. Confusione di babbuini. Risata di una iena. E finalmente mi addormentai.

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